L’inizio dell’anno, si sa, è sempre il tempo dei bilanci e dei progetti per il futuro. A più di un anno dallo scoppio delle rivolte, dunque, anche una valutazione dei risultati della primavera araba e delle sue prospettive sembra quanto mai necessaria.
Tra i teorici del “nulla sarà mai più come prima” e coloro che sostengono che “nulla è cambiato”, l’opzione più realistica, e magari più opportuna, sta forse “nel mezzo”, in un più concreto: qualcosa è cambiato ma forse qualcosa può ancora tornare (o restare) come prima.
È vero che in Egitto e in Tunisia i dittatori sono stati deposti e che anche la Libia, a distanza di qualche mese e con il cospicuo aiuto dell’occidente, ha annientato il “suo” tiranno. Ma nonostante ciò nelle piazze del Cairo e di Tripoli, seppure per motivi diversi, si continua ancora a morire.
In Egitto, a quasi un anno dalla caduta del regime di Hosni Mubarak, quegli stessi militari che hanno sostenuto le piazze in rivolta per la deposizione del tiranno sparano oggi contro i manifestanti che contestano l’arresto del processo democratico; mentre in Libia, nonostante la formazione di un governo ad interim che guiderà il paese fino alla creazione di un’ assemblea costituente, le fazioni dei ribelli, ancora ben armate, scorazzano per il paese e la guerra civile sembra aver lasciato il posto a una guerra tra bande.
Certo questo è ben “poca cosa”, se paragonato alla tragedia della Siria in cui i militari continuano a far fuoco sulla folla, mentre il presidente Bashar al-Assad è ancora alla guida del paese e non sono bastate le 5mila vittime (secondo stime recenti di Human rights watch) a far, finora, seriamente traballare il suo potere.
Se qualcuno spera che gli attori che si sono impegnati nel regime change libico possano ricoprire il ruolo di ago della bilancia anche negli altri scenari più o meno aperti, rischia di rimanere deluso, soprattutto per quanto riguarda l’Unione europea che, rimasta attonita già allo scoppio delle rivolte, non sembra ancora essersi del tutto svegliata dal suo torpore.
Eppure l’Europa ha sempre avuto un grande disegno per il Mediterraneo. Senza voler andare troppo indietro nella storia, basti ricordare il Partenariato Euro Mediterraneo, siglato a Barcellona nel 1995, che voleva ambiziosamente realizzare una politica di cooperazione multiforme, volta a incentivare le riforme politiche nei paesi della “sponda sud” e a porre così le basi per il loro sviluppo economico e sociale. Un grande progetto sulla carta ma un fallimento da un punto di vista pratico.
Qualche anno dopo, nel 2008, è stato Sarkozy, i cui “disegni mediterranei” non sono mai stati un segreto, a spingere per un drastico restyling del partenariato, con l’Unione per il Mediterraneo che, però, a tutt’oggi non è stata in grado di conseguire nessuno degli obiettivi previsti. Ultimo, in ordine di tempo, è il Partenariato per la Democrazia e la Prosperità Condivisa con il Mediterraneo Meridionale, un documento approvato dal Consiglio Europeo Straordinario l’11 marzo del 2011, in cui vengono indicati i nuovi obiettivi della politica euro mediterranea, in risposta agli scenari che si stanno delineando nell’area. Anche in questo caso, seppure sia ancora presto per fornire un bilancio, sembra che i risultati tardino ad arrivare.
Nonostante i buoni propositi, dunque, le politiche euro mediterranee, finora, si sono limitate alle parole e l’Europa non è stata né in grado di dare vita a una concreta politica di lungo termine né di porsi come un interlocutore credibile, procedendo in ordine sparso e frammentato, senza un’unica voce e, a volte, con un certo “dilettantismo”.
Che il 2012 possa essere difficilmente l’anno della svolta si evince da considerazioni, se vogliamo, piuttosto “banali”: l’Europa è alle prese con seri problemi nel cortile di casa e difficilmente troverà il tempo e le energie necessarie per andare in soccorso dei propri vicini. La cosa più opportuna, e meno faticosa, da mettere in atto in “tempi di crisi” è rinunciare a qualsiasi ruolo: nessun ruolo nei massacri siriani, se non qualche dichiarazione di condanna, evidentemente inascoltata, nessun ruolo concreto nella tanto declamata transizione democratica tunisina e, soprattutto, egiziana.
Se nel caso egiziano la posizione europea appare dettata da una certa “pigrizia”, nel caso della Siria è possibile intravedere da parte di Bruxelles anche un disegno diverso, collimante in buona parte con quello di Washington, segnato da “neri presagi”. In un momento in cui l’Unione europea è impegnata a risolvere una della più grandi crisi economico-finanziarie della sua storia, aprire il vaso di pandora siriano vorrebbe dire rischiare uno scenario post Assad peggiore di quello attuale. Un rovesciamento dello status quo, in altre parole, aprirebbe scenari complessi ed incerti che andrebbero gestiti con grande dispendio di energie e questo sarebbe, tanto in termini politici quanto economici, un impegno troppo gravoso per “l’attuale” Europa.
La Siria ricopre, infatti, una posizione geopolitica estremamente delicata, essendo uno dei pivot dell’intera regione mediorientale e, pertanto, un cambiamento di regime a Damasco avrebbe un sicuro impatto anche fuori dai confini nazionali, rischiando di destabilizzare equilibri assai fragili e precari. Non va infatti dimenticato il legame tra il regime di Assad e l’Iran di Ahmadinejad, che proprio in questi giorni sta preoccupando più del solito le cancellerie europee e americane con nuovi test nucleari ed esercitazioni militari che sembrano una chiara prova di forza, e una non tanto velata minaccia nei confronti dell’occidente.
Non meno inquietante sarebbe la situazione per Israele che, con un eventuale governo siriano più radicale, potrebbe vedere seriamente riaccesa la disputa sulle alture del Golan, questione piuttosto spinosa ma “raffreddata” dai tempi della guerra del Kippur del 1973, in seguito alla quale la Siria ha de facto accettato una sorta di “pace armata” con lo Stato ebraico che continua ad occupare militarmente il territorio. Non vanno infine dimenticate le possibili ripercussioni sul Libano. Nel caso in cui il regime di Assad dovesse crollare, infatti, Hezbollah potrebbe non avere interesse nel sostenere uno stato governato da islamisti sunniti con conseguenze sicuramente non desiderabili per la stabilità dell’area.
Lo scenario che si delinea all’orizzonte, dunque, non sembra far presagire un anno sereno. Nonostante ciò va ricordato che le rivolte nel mondo arabo, pur comportando numerosi rischi, possono offrire all’Unione europea l’opportunità di ricoprire nel Mediterraneo un ruolo maggiormente incisivo e, finalmente, svincolato dalle politiche di Washington; prospettiva interessante, certo, ma non prioritaria nell’agenda di un’Europa alle prese con la concreta possibilità del collasso della propria economia.