Bet Sahur, periferia di Betlemme. La casa di Nasir è l’ultima in fondo, là dove finisce la strada sterrata. Si distingue per la struttura e il colore scuro, che le donano un tocco di eleganza in più rispetto alle abitazioni circostanti. Dopo la laurea in architettura conseguita in Italia, Nasir ha fatto ritorno dalla moglie e dai figli, in quella terra distribuita sulla carta geografica a macchia di leopardo, chiamata Palestina o territori, a seconda del punto di vista dal quale ci si metta a guardarla.
Mi scopro ad osservarlo stupito, mentre passa sorridente da un tavolo all’altro a distribuire il cibo. Quasi cinquanta amici tra adulti, ragazzi e bambini, ospiti a cena a casa di una famiglia cristiana palestinese, e sentirsi a proprio agio come se ti avessero accolto i tuoi genitori. Noi che, prima di invitare un paio di persone, guardiamo sul calendario se è il giorno giusto, perché siamo pieni d’impegni e torniamo sempre troppo stanchi dal lavoro.
Per arrivare qui abbiamo dovuto attraversare il check point israeliano, ma per noi occidentali è stata questione di pochi istanti. Lui, Nasir, quella frontiera non può oltrepassarla quasi mai; la sua auto targata a caratteri verdi su sfondo bianco è come un passaporto palestinese, senza visto per andare in territorio d’Israele. Quasi una prigione a cielo aperto, Betlemme. Non come la striscia di Gaza, ma dall’orizzonte reso oscuro dalla presenza del muro, costruito per separarla da Gerusalemme.
Una barriera creata come reazione di difesa da parte di uno stato che ha subito la perdita di un migliaio di civili, vittime dei terroristi che, durante la seconda intifada, partivano da qui per compiere attentati nella città santa. Ma il muro, che è riuscito ad interrompere la sequela delle stragi, non ha fatto altro che alimentare ancor di più l’odio reciproco. Prima di arrivare a casa di Nasir, mi ero preso un po’ di tempo per passeggiarci intorno: un serpente di cemento, lungo e spettrale, chiuso in alto da chilometri di filo spinato e coperto quasi ovunque da disegni e graffiti; in fondo ad una strada c’è persino una palazzina che è stata circondata sui tre lati, e le cui finestre del piano superiore, più alte del muro, hanno le tapparelle perennemente abbassate, dato che la legge proibisce la presenza di punti di osservazione verso Israele.
Poco lontano da qui una scritta recita in inglese: “questo muro può curare il presente, ma non ha futuro”. Un’altra, in italiano, è posta vicino all’immagine di una colomba della pace: “la velocità è il tempo dell’odio, la lentezza è il tempo dell’amore”. Impara da subito a non giudicare, sembra suggerire, davanti ad un conflitto tra ebrei e palestinesi che dura ormai da un secolo ed appare incomprensibile ai più. Prendi su di te il tempo dell’amore di Dio, che non conosce confini.
Dopo cena Nasir ci racconta della sua terra, della sofferenza di un popolo che si sente occupato, della vita difficile dei cristiani palestinesi, minoranza nella minoranza ed osteggiati in tutto, a partire dalla ricerca di un posto di lavoro che non c’è. Parla dei figli, per i quali desidererebbe un futuro migliore, ma che vorrebbe non lasciassero mai il loro paese. Racconta di una speranza in cui credere al di là di ogni dolore, di una fede testimoniata in ogni istante e di un dialogo tra cristiani che qui è già realtà nelle piccole cose di ogni giorno, lui cattolico e la moglie greco-ortodossa. “Papà, come si fa ad amare il proprio nemico?”, gli ha chiesto un giorno uno dei suoi figli. Candidamente, confessa di non avere risposte, ma a lui ha detto: “comincia col non odiarlo”.
Penso a quella frase del Vangelo — “amate i vostri nemici” — ed a quanta fatica faccio nel metterla in pratica nella vita quotidiana, scandita dalle mie infedeltà alla sequela di Cristo. La vicina di casa antipatica e scortese, il collega di lavoro difficile, l’automobilista che suona il clacson in mezzo al frenetico traffico cittadino. Da queste parti il nemico da amare indossa una divisa militare ed imbraccia il mitra. C’è qualcosa di più grande da imparare quaggiù.
Si viene in Terra Santa, di solito, per incontrare pietre che raccontino della vita di Gesù. Luoghi che costruiscano la geografia della Parola di Dio e rendano ragionevolezza alla fede cristiana. Ma, inevitabilmente, ci si imbatte anche nelle pietre vive, che quella stessa fede testimoniano ogni giorno, risvegliando il pellegrino da quella sorta di torpore che rischia di avvolgere il suo viaggiare da un posto all’altro, quasi che la storia dell’incarnazione fosse poco più di un fatto accaduto nel passato.
Ad Ortaz, paesino poco distante da Betlemme, un agglomerato di case dall’aspetto povero e malmesso, da più di cent’anni sono presenti le suore Figlie di Maria Santissima dell’Orto, ordine fondato a Chiavari nel 1827 dal sacerdote Antonio Maria Gianelli. Uniche cristiane in mezzo a cinquemila palestinesi musulmani, custodiscono il santuario dell’Hortus Conclusus, dirigendo, al contempo, l’annessa scuola materna. Oggi siamo venuti a trovarle, per dar loro una mano a ripulire le aule che, tra poco più di un paio di settimane, saranno pronte a riaccogliere un centinaio di bambini provenienti dalle famiglie del paese. La sosta del pranzo, dopo una mattinata di lavoro, è l’occasione per chiedere a suor Rosa che tipo di vita conducano lei e le sue consorelle. In questi luoghi il Vangelo non può essere annunciato, neppure a bassa voce: si tratterebbe di un proselitismo che l’islam non tollererebbe. Ma può essere vissuto, nel dono totale di sé. Verso il bambino affidato da famiglie che hanno fiducia in loro. O nei confronti dell’abitante del paese, che giunge ad ogni ora del giorno e della notte presso il piccolo dispensario che le suore hanno allestito all’interno del convento. La radice dell’amore verso il prossimo non può essere posta come lucerna sopra il moggio, ma è luce chiara, visibile a ciascuno. Persino il sindaco del paese ha chiesto che potessero essere inseriti a scuola alcuni bambini in più, oltre il limite posto alla struttura.
C’è un bisogno di felicità del cuore che trova risposta e travalica ogni tipo di barriera. Guardo gli occhi dolci e sorridenti di suor Rosa, attraversati di tanto in tanto da lampi che ne fanno scorgere l’intelligenza, incorniciati da un volto che racconta di una fiducia inossidabile nel disegno buono del Mistero su ogni uomo. Contemplo il suo viso e penso a questi luoghi di Terra Santa, dove ogni chiesa è ricostruita sulle rovine di quelle distrutte nei secoli dalla furia persiana o musulmana. E non posso fare a meno di pensare che, se anche l’ultima pietra di ogni edificio dovesse sparire da tutti gli angoli della terra, sarà la parola di Dio testimoniata dalla vita dei cristiani a conservare la bellezza in questo mondo.
Incontrare il Custode di Terra Santa a Gerusalemme, questo sì che è un privilegio speciale. Padre Pierbattista Pizzaballa che trova tempo anche per noi, dieci famiglie, una ventina di adulti e quasi trenta ragazzi e bambini. “Dove alloggiate?“, domanda. A Betlemme, dalle suore della Crèche. E vorremmo raccontargli di quest’altra meraviglia, di queste suore uguali a quelle di Ortaz, lo stesso sguardo fiero e lieto, la stessa donazione, alle prese coi bambini dell’orfanotrofio. Una testimonianza ancora silenziosa. Ma ci accorgiamo che non ce n’è bisogno. “Ah, la Crèche…” risponde, con un sorriso che dice già tutto.
Riassumere in poche frasi il dono di più di un’ora d’incontro con colui che in Terra Santa è un punto di riferimento appare impresa impossibile. Padre Pizzaballa ha risposte per le domande di tutti, adulti e bambini. Traspare dal suo sguardo un’affezione, dolce e appassionata, per le persone che abitano questa terra martoriata. Ci racconta di una realtà complessa (“se dopo una spiegazione sul Medio Oriente, pensate di aver capito, significa che non avete capito nulla“), ci aiuta a cogliere la differenza tra cristianità e cristianesimo. “Anche se intorno a me la maggioranza non è cristiana — ci dice — le ragioni della fede non vengono meno. Gesù è morto sulla croce gratuitamente e la gratuità deve essere ciò che mi caratterizza. Il cristiano propone, non impone. Si presenta, testimonia, vive innanzitutto la sua fede, l’annuncia con la vita. La redenzione che raggiunge tutto il mondo è innanzitutto la mia esperienza: io sono stato redento, e vivo questa salvezza con gratuità, facendo tutto quello che posso. Non devo conquistare, ma attrarre. Poi il resto lo fa il Signore“.
Momenti straordinariamente intensi, come quando parla a noi di pace: “se vuoi fare la pace, sarai frustrato, dall’inizio alla fine. Sei tu che devi avere un atteggiamento di pace, intercedere per essa. Sei qui per testimoniare un’esperienza che deve diventare vita, cercare di costruire relazioni. E le relazioni non sempre hanno successo, ci sono anche i fallimenti. A volte i tempi sono diversi: é allora che bisogna avere la pazienza di attendere l’altro“. Cercavi qualcosa da portare via ed eccoti servito: è questo il cuore di cui avrai bisogno quando tornerai indietro, in famiglia, al lavoro o sul pianerottolo di casa.
Verbum caro hic factum est. Adorare Gesù Eucaristia a Nazaret, nella Basilica dell’Annunciazione. Farlo in quell’unico luogo al mondo dove la parola “qui” si aggiunge alla frase del mistero dell’incarnazione. Dev’essere per forza qualcosa di speciale, perché è questo il luogo dove Dio si è fatto dimora. La grotta della casa di Maria, intorno alla quale ci si dispone a semicerchio, diviene il luogo dove sentirsi una cosa sola, perché è qui che Dio si è fatto famiglia. Penso che deve averla udita anche lei, Maria, una musica nel cuore, dopo aver detto sì all’annuncio dell’angelo. Una musica dolce, che è risposta a una chiamata, scoperta della bellezza di un disegno. Armonia come le note dell’organo e delle chitarre, che ora accompagnano il tempo della nostra adorazione. Come d’incanto, spariscono dalla mia mente tutte le stanchezze e le distrazioni che troppo spesso affollano i pensieri.
La preghiera sperimenta un’intensità mai provata prima, una pace che sembra predisporre il cuore a qualcosa di speciale che oggi l’angelo abbia da dire pure a me. Accade così che, in un indefinito istante, giunga in lontananza la voce del muezzin, che, dalla moschea adiacente alla basilica, invita i propri fedeli alla preghiera. La sura del Corano, appesa nella piazza poco distante e dai versetti quasi minacciosi, appare all’improvviso più lontana.
Per la prima volta quella voce, udita anche nel cuore della notte, non genera in me la sensazione di disagio che spesso si era fatta strada, sottile, tra le pieghe della mente. Stavolta essa avanza in modo nuovo e inaspettato, come se stesse cercando un sentiero sconosciuto, da percorrere sino a giungere a fianco delle altre voci. Preghiere vicine tra loro, come fossero corpi posti l’uno a fianco all’altro, ognuno con la propria ferita, ciascuno col proprio disperato desiderio di felicità. E’ in quell’istante, e solo in quello, che sorge spontanea dal mio cuore la preghiera di Gesù, quel testamento da accogliere come l’eredità più preziosa lasciata da Dio alla sua umanità sofferente: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato“.
Com’è difficile far sì che la penna riesca a scrivere ciò che è emozione di un’anima in preghiera. Eppure Emile, araba cristiana con passaporto israeliano incontrata il giorno prima, non ci aveva raccontato nulla di meno. Null’altro che non fosse questa viva e appassionata tensione all’unità. Madre di quattro figli, sposata, lei cattolica, con un greco ortodosso, impiegata come ispettore dell’ufficio delle tasse ad Haifa, ci aveva fatto partecipi di un amore che vede Gesù in ogni prossimo e che genera inaspettati frammenti di reciprocità tra cristiani, musulmani ed ebrei. Rapporti di lavoro, amicizia tra famiglie, piccole cose di ogni giorno ma che appaiono come l’eroico che diventa quotidiano.
Racconti che ti fanno comprendere con stupore che il dialogo è sempre possibile, anche qui, sulla scena di un Medio Oriente perennemente in conflitto, perché chi ti parla ti spiega che l’unica cosa di cui abbiamo bisogno è di accrescere la nostra fede, poiché Dio, che vincerà tutto, dà la forza a ciascuno secondo il proprio bisogno. Il racconto di Emile è l’esperienza dei cuori semplici delle persone, che desiderano vivere rapporti di fraternità, nonostante una politica che li travalica sempre, coi propri percorsi che innalzano barriere. Il volto di Emile è l’ennesimo volto lieto incontrato, perché questa è la vita dei cristiani in queste terre sante. Il suo sorriso, così simile a quello della piccola suora cattolica che vive a Gaza, incrociata per caso al Santo Sepolcro e che, alla domanda su che cosa si potesse mai fare laggiù, aveva candidamente risposto: “portare la pace a chi non ce l’ha”.
“Amico, per questo sei qui”. Le parole, drammatiche, rivolte da Gesù a Giuda nel Getsemani, mi hanno rincorso senza tregua, per tutto il tempo del mio pellegrinaggio in Israele. Talvolta le ho attese, altre volte ho cercato di sfuggirle quasi impaurito, ma sempre nell’affannosa speranza di trovare il senso del mio viaggiare. Ogni luogo percorso alla sequela di Gesù, da Betlemme a Nazaret, dalla dolce Cafarnao fino al Calvario di Gerusalemme, ha richiesto, per essere guardato ed afferrato, che perdessi un pezzetto del mio io, quell’uomo vecchio carico di limite e di peccato che rende sempre faticoso ed impacciato il passo.
Come Mosè, invitato da Dio al roveto ardente a togliersi i calzari poiché quella in cui Egli si stava rivelando era Terra Santa, ho provato a spogliarmi a poco a poco di tutti i pregiudizi, per cogliere la grandezza di ciò che ho sfiorato nell’attimo presente. Non so se ci sono riuscito, ma alla fine mi è rimasta in mano una sola certezza, quella dell’amore folle di un Dio che le mie dita hanno in qualche modo sfiorato, quando, con commozione, sono giunte a toccare anche solo per un breve istante la pietra del Golgota al Santo Sepolcro.
Se mai arriverà il tempo in cui gli uomini di queste terre sofferenti vedranno sorgere l’alba di un giorno di speranza, sarà quando avranno imparato a costruire il dialogo dentro l’abbraccio a un Dio che ha gridato sulla croce il dolore più grande, quello di un Figlio che prova nella Sua carme l’abbandono dal Padre. E che, il terzo giorno, ha lasciato il sepolcro vuoto. “Gesù — scrisse Chiara Lubich un giorno — è Gesù Abbandonato. Perché Gesù è il Salvatore, il Redentore, e redime quando versa sull’umanità il Divino, attraverso la Ferita dell’Abbandono, che è la pupilla dell’Occhio di Dio sul mondo: un Vuoto Infinito attraverso il quale Dio guarda noi: la finestra di Dio spalancata sul mondo e la finestra dell’umanità attraverso la quale si vede Dio“. Come il mercante in cerca della perla preziosa, anch’io ho trovato finalmente ciò per cui vale la pena di vendere tutti gli averi. Il mio viaggio ora è davvero finito, sono pronto per ritornare a casa. Vieni, Signore Gesù. Sei Tu l’unico mio bene.