Per la prima volta gli Stati Uniti hanno definito l’intervento militare in Nord Corea “una opzione”. Sono parole del segretario di Stato americano Rex Tillerson, che ieri ha visitato l’area demilitarizzata tra le due Coree, ove è installato lo scudo spaziale Thaad e domani incontrerà il leader cinese Xi Jinping. A complicare la situazione un tweet di Donald Trump in cui il presidente americano rimprovera la Cina di “aver fatto poco per aiutare” nella soluzione del problema nordcoreano. Per Francesco Sisci, editorialista di Asia Times, “la Cina teme che gli Stati Uniti usino la minaccia nordcoreana per stringere e mettere in difficoltà la Cina. Questo è ciò che allontana la Cina dagli Usa”. In più, ad aggravare la situazione c’era un asse Pechino-Seul che oggi si è deteriorato. Andrebbe al più presto ricostituito. Ma non occorre farsi illusioni: nel breve termine la situazione potrebbe continuare a deteriorarsi. Ecco perché “Pechino dovrebbe chiedere aiuto alla Santa Sede per una mediazione con Washington”.
Sisci, dalle dichiarazioni di Tillerson la situazione è preoccupante.
Direi di sì. Il problema è che dopo l’11 settembre i calcoli di rischio americani sono cambiati. La Corea del Nord ha una leadership già con capacità nucleari e abbastanza folle da pensare a gesti straordinari. Se ottenesse la capacità missilistica di raggiungere gli Usa ciò comporterebbe la possibilità concreta di subire un attacco nucleare. Al Qaida non aveva armi nucleari o missili, ma solo la follia ideologica, quindi Pyongyang è molto peggio e gli Usa dopo l’11 settembre pensano di non potersi più permettere di esporsi a rischi simili.
Pechino non è d’accordo con la valutazione americana. Perché?
Pechino pensa che il rischio rappresentato dalla Nord Corea sia molto minore e che sia invece più pericoloso il sistema antimissile installato in Sud Corea, che di fatto indebolisce anche le capacità offensive della Cina. Questa disparità della percezione del pericolo da parte di Usa e Cina è l’elemento più rischioso perché moltiplica la possibilità di scontro.
Il segretario di Stato Usa ha detto che la “denuclearizzazione è l’unica strada per la Corea del Nord per ottenere sicurezza e stabilità economica”. Teoricamente non fa una piega. Che ne pensa?
In teoria sì. In realtà Pyongyang pensa che la bomba sia la sua unica garanzia di sopravvivenza politica. In effetti in Libia Gheddafi rinunciò al nucleare, ma poi venne deposto e ucciso da una rivoluzione sostenuta dagli Usa. Questo è uno dei nodi di questa complessa contraddizione nord coreana. D’altro canto l’intera percezione della politica a Pyongyang è paranoica, per cui non c’è alcuna fiducia verso alcun paese, nemmeno verso la Cina, quindi tutto si complica.
Torniamo alla Cina. Lei ha parlato di una percezione del rischio minore da parte di Pechino nei confronti di Pyongyang. Perché?
La Cina teme che gli Stati Uniti usino la minaccia nordcoreana per stringere e mettere in difficoltà la Cina. Questo è ciò che allontana la Cina dagli Usa. Ma stavolta c’è un problema in più. Negli ultimi 15-20 anni c’erano stati progressi sulla questione nordcoreana grazie soprattutto a un asse di rapporti speciali tra Pechino e Seul. Questo asse irrobustiva la posizione di Pechino anche a Washington e Tokyo. Negli ultimi anni però l’asse Pechino-Seoul si è prima logorato e poi si è rotto. Questo è il pezzo che oggi manca e che peggiora ogni possibile ricerca di soluzione.
Scusi se insistiamo. Qual è il pensiero strategico della Cina sulla crisi nordcoreana?
Pechino ha convissuto con la Nord Corea per decenni e non la vede come un rischio, ma come un fastidio. Viceversa, specie alla luce della crescente tensione con gli Usa, Pechino — come dicevo — teme che gli Usa vogliano usare la Nord Corea per mettere in difficoltà la Cina. In effetti questo già è un motivo di imbarazzo. In caso di aumento di pressioni americane su Pyongyang, Pechino che farà? Se difende Pyongyang, si trova nella stessa barca ad affogare in una seconda crisi coreana. Si ricordi che la guerra fredda iniziò proprio a partire dalla caldissima guerra di Corea, dove i cinesi difesero il Nord. Se Pechino invece abbandona il Nord, gli Usa potrebbero essere tentati di rovesciare il regime di Pyongyang e portare loro truppe molto più vicino al confine cinese. Inoltre un nuovo regime al Nord potrebbe far esplodere questioni con la minoranza coreana in Cina, pari a circa 2,5 milioni di persone.
Alla luce delle sue considerazioni, verrebbe da dire che per la Cina lo status quo pare l’opzionemigliore.
In realtà no, perché per gli Usa, ma anche per la Sud Corea e il Giappone la nuova minaccia di Kim Jong-un ha già alterato lo status quo e questa situazione va risolta.
Adesso, dopo il duro monito americano, chi dovrebbe fare che cosa?
Il problema è che non ci sono soluzioni positive sul tavolo, solo gradazioni di scelte cattive. Questo non perché gli Usa sono cattivi e la Cina buona o viceversa, ma perché Kim ha giocato al rialzo scommettendo, in un azzardo, di uscirne vincitore e vivo. Al di là di Trump, dopo l’11 settembre gli Usa non possono permettersi di esporsi a un rischio più grande di quello. La soluzione sarebbe che la Cina capisca i problemi e le preoccupazioni degli Usa e del Giappone, che ricostruisca rapidamente un solido rapporto con la Sud Corea e che in questo spazio si cerchi una soluzione pacifica alla crisi. Gli Usa d’altro canto dovrebbero pensare anche alle preoccupazioni strategiche della Cina. Ma la realtà è che ormai sembra esserci troppa diffidenza reciproca sul campo e poca voglia di darsi reciprocamente fiducia.
Domani (oggi, ndr) Tillerson vedrà Xi: sulla base di queste premesse, che cosa farà la Cina?
Purtroppo le prospettive non sono rosee. Lo stesso annuncio dell’opzione militare americana poco prima dell’arrivo di Tillerson è già una dichiarazione di intenti. In teoria, in uno scenario di fantapolitica, un avvitamento potrebbe essere evitato solo da un’invasione lampo cinese contro la Nord Corea che ne rovesciasse il regime e ne installasse un altro più ragionevole. Ma anche questa opzione è un azzardo con mille rischi e senza garanzie.
Quindi?
Detto questo, è possibile che non ci sia uno showdown subito, ma che la tensione continui a crescere e si cristallizzi, avvelenando l’immagine internazionale della Cina. Forse questo è lo scenario migliore nel breve termine, ma nel medio e lungo periodo è ancora più pericoloso per la Cina, che diventerebbe l’ostaggio di Pyongyang. Forse, in questo scenario altamente inquietante, Pechino dovrebbe chiedere aiuto alla Santa Sede per una mediazione con Washington. Ma anche questo in realtà si potrebbe fare solo se prima ci fosse una normalizzazione dei rapporti.