“Dietro l’assalto all’hotel di Bamako in Mali ci sono dei gruppi di tuareg che si sentono socialmente discriminati e che, pur non avendo assolutamente nulla a che fare con il califfo Al-Baghdadi, utilizzano il marchio dell’Isis per avere una maggiore risonanza mediatica globale”. Ad affermarlo è il missionario e giornalista padre Bernardo Cervelliera, direttore dell’agenzia Asia News. Venerdì mattina un commando jihadista ha colpito all’hotel Radisson Blue con armi da fuoco e granate al grido di “Allahu Akbar” (Dio è il più grande). In tutto 170 persone sono state catturate, di cui 30 dipendenti e 140 ospiti. Quindi il blitz delle forze di polizia che ha liberato gli ostaggi, anche se il bilancio ancora provvisorio parla di 27 vittime oltre a tre terroristi uccisi. Intervenendo giovedì il presidente francese, Francois Hollande, aveva ricordato che tre anni fa la Francia ha aiutato il Mali durante la guerra civile, ottenendo una “vittoria”. Quindi aveva aggiunto: “I terroristi lo sanno per questo ci considerano nemici”.
Padre Cervellera, fino a che punto quello di Bamako è un attacco contro la Francia?
E’ un attacco alla Francia in quanto quest’ultima nella zona sub sahariana ha praticamente tutte le sue ex colonie. Questi Stati africani hanno rapporti economici e come moneta di scambio usano il franco dell’Africa Occidentale, che prima dell’entrata in vigore dell’euro era bilanciato sul franco francese.
Quello tra Francia e mali è un rapporto solo economico o anche politico?
E’ un rapporto anche politico. Parigi ha un potere di gestione e di veto sulla politica del Mali e di altri Paesi dell’area. Nelle elezioni, nel modo di gestire la politica e l’economia la Francia ha una gran voce in tutti questi Stati. Quanti si sentono vittime di questo neocolonialismo se la prendono ovviamente con Parigi.
L’attacco all’hotel è stato deciso dal califfo Al-Baghdadi o da gruppi che agiscono in modo autonomo?
Al-Baghdadi c’entra poco o niente. Tutti i gruppi che sono alla base di quanto sta avvenendo in Mali rappresentano un tentativo rabbioso di rispondere a un problema, a una violenza e a un’ingiustizia che hanno subito o a una situazione in cui sono estromessi dal potere.
Chi sono questi gruppi?
I tuareg e le popolazioni arabe del Mali, che sono escluse dalla gestione del potere e dell’economia. Il loro obiettivo è fare sentire la loro voce, e sanno che se si dichiarano a favore dello Stato Islamico o di Al Qaeda vengono ad avere molta più eco nei media. Associandosi alle bandiere nere dell’Isis vengono quindi ad avere un potere mediatico e d’influenza sull’opinione pubblica molto maggiore.
E’ un problema che esiste solo in Mali?
No. Questi gruppi sono dispersi un po’ ovunque nell’Africa Centrale , e al momento opportuno tirano fuori l’etichetta di Al Qaeda o dello Stato Islamico. E’ anche possibile che lo Stato Islamico trovi il modo, attraverso varie forme, di finanziare o anche di aiutare questi gruppi che dicono di essere alleati in modo da ricevere somme di denaro.
A quattro anni dall’insurrezione dei tuareg, perché non è stata data una risposta politica?
Sembrava che la risposta politica ci fosse stata. Il problema è che poi emerge sempre qualche gruppo o qualche tribù che non è contenta della situazione, e quindi ci troviamo di fronte a fatti come quelli di ieri. Per fare un paragone con quanto sta avvenendo nelle Filippine, i musulmani di Mindanao rappresentati dal New People’s Army hanno cercato di fare la pace con il governo. Una parte di loro però non riceveva abbastanza aiuti e ha quindi fondato un altro gruppo, il Fronte Islamico Moro. Quando anche quest’ultimo ha fatto la pace con il governo, è spuntato un terzo gruppo.
Per tornare al Mali, secondo lei qual è la soluzione?
Bisogna trovare tutti insieme delle soluzioni ragionate, cercando di non escludere nessuno. Come ha detto Papa Francesco, “bisogna essere il più possibile inclusivi”.
Dopo gli attentati di Parigi e Bamako, dobbiamo aspettarci una serie di attacchi globali?
Gli attacchi terroristici sono ormai diventati una sorta di modello per il grande successo mediatico e di pubblico che hanno nel mondo. Grazie al marchio dell’Isis, le persone che si sentono schiacciate, emarginate e impotenti trovano il modo di fare sentire la loro voce e questo li galvanizza. Occorre dunque trovare il modo di fermare la violenza, naturalmente anche con mezzi militari. Questi ultimi però non sono sufficienti.
Di che cos’altro c’è bisogno allora?
Bisogna arrivare al dialogo politico e sociale, in modo tale che i problemi che nascono da queste ingiustizie possano essere sanati. E’ questo il punto su cui l’Occidente è ancora carente. Noi bombardiamo in Siria e in Iraq, ma non ci siamo dati da fare affinché in entrambi i Paesi ci sia una società dove tutti sono rispettati e possono partecipare alla vita pubblica.
(Pietro Vernizzi)