Ha preso inizio ieri l’ambizioso tour di quattro giorni del primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, che sarà fino al 15 in Africa settentrionale; più precisamente, nell’epicentro della “primavera araba”, nell’ordine Egitto, Tunisia, Libia. L’obiettivo palese ed esplicitamente dichiarato di quella che è la prima visita di un leader di caratura globale nella regione è conquistare influenza, economica e politica; e rafforzare le proprie credenziali di fonte d’ispirazione – più che di modello – per i nuovi sistemi istituzionali da costruire dopo la fase rivoluzionaria, di fonte d’investimenti per i settori economici che hanno evidente bisogno di liberalizzazioni e d’impresa (non a caso, Erdogan sarà accompagnato non solo da sei ministri ma anche da circa 200 imprenditori).
La Turchia, infatti, rappresenta per tutti i paesi mediorientali – lo testimoniano prese di posizioni politiche e ricerche accademiche – un esempio vincente e se possibile da imitare: perché, al potere dal 2002, il Partito della giustizia e dello sviluppo ha rafforzato le strutture democratiche, ha ampliato la sfera delle libertà, ha combattuto con successo le intrusioni autoritarie dei militari e della magistratura, ha facilitato una crescita economica da record (+8,8% nel secondo trimestre del 2011), ha posto le basi per una nuova costituzione – più inclusiva, in linea con gli standard europei – che inizierà a essere dibattuta già a ottobre. La lezione è: i partiti d’ispirazione islamica – anche di origine islamista – se inseriti a pieno titolo nei processi di governo evolvono in senso democratico.
La visita ufficiale di Erdogan, soprattutto, non deve essere riduttivamente letta come iniziativa tattica dell’ultim’ora per cercare alleati con cui sostituire la Siria di Assad, per spuntare contratti a condizioni favorevoli da una posizione di vantaggio, per raccogliere sostegno nella crisi turco-israeliana e “isolare Israele”.
Invece, l’apertura nord-africana è un elemento portante della strategia di ampio respiro e di lungo periodo voluta dal ministro degli esteri Ahmet Davutoglu: che negli ultimi due anni si è speso – con alterne fortune – per superare il contenzioso bilaterale con tutti i vicini; per creare nelle proprie periferie – dai Balcani al Medio oriente – meccanismi istituzionalizzati di cooperazione politica ed economica; per dar vita ad aree regionali di libero scambio in regime di libera circolazione delle persone: come quella da costruire insieme a Siria, Giordania e Libano – l’area Shamgen, lanciata lo scorso anno e oggi congelata a causa della crisi siriana – ma con l’idea di coinvolgere l’Iraq, forse l’Iran, soprattutto l’Egitto e gli altri paesi nord-africani.
Dopotutto, nel suo discorso dopo la vittoria elettorale del 12 giugno Erdogan si è proposto come riferimento politico per i “popoli fratelli” dell’area ex ottomana – dalla Bosnia alla Palestina – e ha promesso tutto il suo impegno per assicurare diritti, libertà, prosperità e giustizia.
Il suo viaggio in Egitto, Tunisia e Libia ne è la logica conseguenza: la testimonianza non di un riallineamento passeggero dettato dalle circostanze (alcuni sostengono – precipitosamente – in funzione “anti-israeliana”), ma di un mutamento strutturale approfittando del quale la Turchia – potenza regionale, attore globale – vuol recitare un ruolo da assoluta protagonista.
Gli appuntamenti nell’agenda del premier turco sono tutti ai massimi livelli. Ieri è stato accolto all’aeroporto dal primo ministro Essam Sharaf e da una folla festante; ha poi incontrato Mohamed Hussein Tantawi, presidente del Consiglio supremo delle forze armate e ministro della difesa, per la firma del trattato che istituisce l’Alto consiglio di cooperazione strategica tra i due paesi e una serie di altri accordi in campo economico e culturale. Oggi invece parteciperà – con un atteso discorso – al consiglio dei ministri della Lega araba e avrà un colloquio con il Segretario generale Nabil al-Arabi; poi s’intratterrà con alcuni leader politici e religiosi, oltre che col presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (parleranno del voto dell’Onu sul riconoscimento dello stato di Palestina, la Turchia ne è forse il maggior sponsor): mentre l’ipotizzata – e potenzialmente incendiaria – visita a Gaza rimarrà in sospeso. Domani sarà la volta della Tunisia: per conversazioni con il presidente provvisorio Fouad M’Bazaa, col primo ministro Beji Caid Essebsi, coi rappresentanti dei più importanti partiti; e infine la Libia: dove discuterà principalmente col presidente del Consiglio nazionale di transizione di come la Turchia vuole e potrà partecipare alla ricostruzione – istituzionale ed economica – del dopo Gheddafi.