Tra le molte, troppe tragedie che insanguinano Medio oriente e Africa, quella del Sud Sudan appare particolarmente insensata. Dall’indipendenza del Sudan, le regioni non arabe del sud hanno iniziato una guerra contro il Nord arabo, terminata nel 1972 con la concessione dell’autonomia. La guerra è ripresa nel 1983 in seguito alla trasformazione del Sudan in uno Stato islamico sottoposto alla sharia ed è finita nel 2005 con un nuovo accordo sull’autonomia delle regioni meridionali. In seguito all’esito plebiscitario del referendum tenutosi nel 2011, il Sud Sudan è diventato del tutto indipendente da Khartoum, ma la pace è durata poco. Nel 2013 è scoppiata, ed è tuttora in corso, una guerra civile che ha portato alla ribalta in un modo estremamente violento le divisioni di un Paese lacerato da lotte tra fazioni politiche, da contrasti di potere e da corruzione estesa, che si intrecciano con conflitti etnici.
La crisi è iniziata con il contrasto tra il presidente Salva Kiir, di etnia dinka, e il vicepresidente Riek Machar, di etnia nuer, le due etnie relativamente più numerose in un Paese in cui si parlano decine di lingue diverse. Dopo anni di lotta contro il governo musulmano del Sudan, ora la guerra civile avviene all’interno del mondo cristiano, cristiani infatti sono i leader delle due opposte fazioni. Le differenze etniche sono però solo un aspetto, spesso strumentalizzato, della questione, legata piuttosto a lotte di potere e di controllo delle risorse del Paese, tra cui il petrolio. Anche se le potenzialità agricole e sul versante delle materie prime sono apprezzabili, le continue guerre hanno ridotto il Sud Sudan sull’orlo del collasso economico. I costi umani della guerra sono altissimi: almeno 50mila morti secondo l’Onu, 2 milioni di rifugiati nei Paesi limitrofi e altrettanti sfollati interni, 4/5 milioni a rischio fame su una popolazione di 12 milioni di abitanti. Entrambe le parti in lotta vengono accusate di uccisioni indiscriminate di civili e di violenze su donne e bambini, di cui molti reclutati come soldati: l’Onu parla di circa 17mila bambini soldati impiegati sia dal governo che dai ribelli. A suo tempo, ilsussidiario.net ha pubblicato diverse testimonianze dall’interno, inviate da Anna Sambo, responsabile di Avsi in Sud Sudan.
Nel 2015 si sono avviati colloqui di pace che hanno portato Riek Machar a ricoprire di nuovo la carica di vicepresidente, ma gli scontri sono continuati e Machar, abbandonata la vicepresidenza, è tornato a guidare l’opposizione armata. La presenza di quasi 14mila militari, in gran parte etiopici, sotto le bandiere dell’Onu non ha avuto alcun risultato, anzi, la loro presenza è sempre meno tollerata e sempre più ostacolata anche dalle forze governative. Gli stessi campi profughi dell’Onu sono stati più volte attaccati, come accaduto anche a sedi di Ong e a strutture missionarie cristiane. Dopo un cessate il fuoco proclamato unilateralmente dal presidente Kiir, a metà ottobre sono continuati colloqui di pace, ma gli scontri continuano ed è difficile ipotizzare una soluzione a breve del conflitto. Paradossalmente, si comincia ad invocare l’intervento del governo di Khartoum, il nemico di un tempo. L’ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, inviata dal presidente Trump in Sud Sudan, è stata costretta ad abbandonare, a seguito di una sommossa antigovernativa, un campo profughi che stava visitando. L’ambasciatrice ha fatto presente al governo di Juba la forte delusione degli Stati Uniti, i maggiori sostenitori del nuovo Stato, per i miserevoli risultati raggiunti dal processo di indipendenza e per le tragiche condizioni della popolazione.
In questa drammatica situazione, anche il viaggio in Sud Sudan di Papa Francesco insieme al primate anglicano Justin Welby è stato procrastinato. Un’altra possibilità di riconciliazione mancata in un Paese in cui il 60 per cento della popolazione è costituito da cristiani, cattolici, anglicani e riformati.