Uno show imbarazzante, quello romano del colonnello Gheddafi; ma imbarazzante soprattutto per chi glielo ha concesso. Il colonnello ci ha abituato alle sue sparate, ai suoi vestiti da Mago Othelma e tutto quel suo repertorio che sarebbe perfetto per un film di Mel Brooks. E finché le fa a casa sua, senza la nostra attiva collaborazione, chisseneimporta. Ma diverso è quando tutto questo avviene avendo per quinta la città eterna, che nei suoi quasi 3000 anni di storia ne ha viste di ogni colore, ma alla quale l’ennesima cafonata poteva essere risparmiata.
C’è dell’incredibile, se solo si pensa che la politica estera di Berlusconi e dei suoi governi era stata spesso criticata per essere sempre stata eccessivamente filo-atlantica, ultra-occidentale, fin troppo rumorosa nel rivendicare radici e identità cristiane dell’Europa, nel difendere la presenza dei crocefissi nei luoghi pubblici e via discorrendo. Dopo l’11 settembre, con la scelta di svolgere un ruolo sempre più attivo in Afghanistan, per aver preso parte all’occupazione dell’Iraq a partire dal 2003, per i rapporti strettissimi con Israele, la politica estera di Berlusconi era stata spesso accusata di essere “ideologica”, di sacrificare a certi valori e ideali gli interessi concreti del Paese.
Da qualche tempo la musica sembra essere cambiata. Lo si è visto nella relazione molto stretta con la Russia del duo Putin-Medvedev, con i rapporti eccessivamente cordiali con l’Iran di Ahmadinejad, e, soprattutto, con la amicizia sbandierata ai quattro venti con il colonnello di Tripoli. Più che un cambio di registro, o di un cortocircuito, tuttavia, sembra di assistere a una sorta di stato confusionale nella nostra politica estera.
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È ovvio che un Paese come l’Italia debba mantenere relazioni il più possibile distese con tutti, a iniziare dai vicini, evidentemente. Uno stato di tensione permanente con questo o quel Paese legato al suo cattivo record sui diritti umani non farebbe altro che eliminare la nostra capacità di avere la benché minima influenza su quella delicata agenda e finirebbe col danneggiare alcuni nostri possibili interessi, magari più prosaici, ma non per questo meno degni di tutela.
Se i governi democratici, del resto, volessero mantenere relazioni cordiali solo tra di loro, molto semplicemente dovrebbero rassegnarsi a non avere contatti proficui con la quasi totalità dell’Africa, una buona parte dell’Asia, e qualche importante Paese europeo. Proprio per evitare una simile sciagurata eventualità, le democrazie avvedute graduano il livello di enfasi e calore (oltre che pubblicità) delle loro relazioni anche in base a considerazioni di carattere etico o ideale. Per cui i rapporti tra democrazie occidentali sono sempre di “alleanza, amicizia e condivisione” ed esibiscono un tono e un calore non riservato agli altri.
Una certa riservatezza è gradita in diplomazia, tanto più quando relativa alle relazioni con quei Paesi la cui collaborazione è utile e necessaria, ma da cui ci separano troppe differenze in termini di valori e principi. Una simile prassi non è un esercizio di ipocrisia, ma è ciò che consente di tenere in difficile, precario equilibrio, i principi e le esigenze di realpolitik: non abdicando ai primi e non rinunciando alle seconde. Ma nulla di questo legittima il circo romano dei giorni scorsi. E sostenere che tutto ciò aiuterebbe l’Italia “a svolgere un ruolo guida nei rapporti euro mediterranei” è pura follia. Spettacoli simili, semmai, minano la nostra credibilità e il nostro prestigio internazionali, già peraltro tutt’altro che solidi, e non certo da ieri, ma da decenni.