Finalmente a casa. Dopo 13 ore di volo e un atterraggio spettacolare attraverso uno dei canyon che rigano la zona di Tababela, Papa Francesco atterra all’aeroporto di Quito. Sono le 15 ora locale: 2300 metri di altezza e l’aria pungente delle Ande sono quasi un ristoro dopo la fuga dall’afa romana. Ai piedi della scaletta dell’Airbus 330 dell’Alitalia che lo ha portato in Ecuador, prima tappa del suo nono viaggio internazionale, il presidente Rafael Correa e due bambini carichi di fiori. Francesco inizia con un colpo d’occhio all’aria del Mariscal Sucre, l’aeroporto secondo solo a quello di El Alto, in Boliva, per altitudine, il suo ritorno in America latina. Non è l’Argentina, ma il benvenuto è nella lingua del latte materno e nonostante la stanchezza Bergoglio sorride alla piccola folla, preludio delle adunate oceaniche che lo attendono.
Quasi dalla porta di servizio, si introduce nel continente americano. Non a caso ha scelto di percorrere quel corridoio che proprio da Quito porta attraverso la Bolivia al Paraguay: una fascia schiacciata da Colombia, Venezuela e Brasile a nord e da Cile a Argentina a sud. La periferia della periferia, ha detto qualcuno, sicuramente un’opzione geo-ecclesiale, quella operata da Francesco, che ancora una volta mostra la preferenza per il sud del mondo. Prima di piombare con la sua carica morale nei palazzi del potere, quelli bianchi di Washington o quelli di vetro di New York, compie una scorribanda tra nazioni familiari, a fare incetta di idee, programmi, richieste e aneliti. L’anello debole della società andina diventa così il laboratorio di una nuova idea di partecipazione sociale, dove i poveri hanno un posto di primo piano.
E’ una singolare coincidenza che proprio Correa, economista formatosi nei collegi gesuiti prima e nelle università cattoliche poi, sia il primo ad attenderlo. Il presidente ecuadoregno al terzo mandato, fautore del neosocialismo latino, conosce bene il pontefice, ed esibisce sintonia con le letture politico-economiche di Francesco. Anzi, lo spregiudicato uso di alcune frasi bergogliane, estrapolate dai contesti originali per finire in spot governativi, gli hanno fatto guadagnare un severo richiamo da parte della conferenza episcopale ecuadoregna, preoccupata di una strumentalizzazione della voce del successore di Pietro in un momento di tensione per il paese.
Gli scontri e le manifestazioni di piazza contro le annunciate e congelate misure fiscali su plusvalenze e diritto ereditario, sono alle spalle: una tregua papale vige, da qualche giorno, tra governo ed opposizione. Ma l’attenzione a gesti e protocollo, intese e parole è spasmodica. Opinione pubblica, osservatori e leader della protesta sono pronti a misurare toni e accenti, e persino la gerarchia cattolica, spaccata nel giudizio sull’incognita Correa, è pronta a decifrare l’approccio di Francesco. Che quando parla non può che richiamare il suo ruolo di testimone della misericordia di Dio e della fede in Gesù Cristo.
E’ sempre il Vangelo per Bergoglio la chiave per affrontare le sfide, siano sociali, politiche o economiche. Il metodo è quello che predica ormai da più di due anni: “apprezzamento delle differenze”, “dialogo” e “partecipazione senza esclusioni” per raggiungere il progresso e lo sviluppo in grado di garantire un futuro migliore per tutti, in particolar modo per chi è più fragile e vulnerabile.
Su questo il Papa rassicura il presidente Correa: l’impegno e la collaborazione della Chiesa non verrà meno. Il capo del governo incassa un placet importante, Francesco, però, sfugge alla trappola, non si schiera con una parte, ma con l’intero popolo ecuadoregno, incitando a non perdere la capacità di difendere il piccolo e il semplice, anziani e bambini, giovani e natura. E in un discorso breve ed essenziale riprende un’immagine che aveva incantato i cardinali, nel suo intervento alla vigilia del conclave: Gesù Cristo il sole e la Chiesa e le comunità la luna. Nessuno, eccetto Gesù, brilla di luce propria. L’autoreferenzialità è proibita. Il viaggio è appena iniziato ma c’è già da pensare.