“L’hub italiano verso l’Africa: accordi politici per governare il fenomeno delle migrazioni, ma non solo”. Lo ha detto ieri il ministro degli Esteri Alfano parlando al primo forum economico italo-libico ad Agrigento. Nel frattempo, però, il dato certo è che la Libia è l’hub dei migranti verso l’Italia. Una politica incerta e poco lungimirante, quella del nostro paese in Libia, come spiega Michela Mercuri in questa intervista. “Puntare sulla Libia, su questa Libia, per arginare l’emergenza migranti è un fallimento annunciato”.
In quanto sta accadendo le responsabilità dell’Italia sono ormai acclarate. Si punta il dito contro l’operazione Triton, sottoscritta dal governo Renzi. A ragione o a torto?
Triton consente alle navi che operano nel Mediterraneo di condurre tutti i migranti in Italia. Le conseguenze sono evidenti. Fin qui l’Europa si è adagiata su questo principio, lavandosi la coscienza con il periodico aumento dello stanziamento dei fondi per sostenere la missione. Questo non basta più e pertanto credo sia indispensabile per l’Italia insistere con Frontex per rivedere il mandato di Triton in modo da ripartire in maniera condivisa i migranti messi in salvo dalle varie navi di Ong straniere che operano nel Mediterraneo. Un cambio di passo radicale che l’Europa pare molto coesa nel non voler attuare.
In questi giorni si è molto parlato della Libia, spesso citando in modo non meglio precisato “fondi” da impiegare per la gestione dell’emergenza. Cosa può dirci in merito?
L’accordo sui migranti siglato il 2 febbraio scorso tra Gentiloni e Serraj prevedeva, tra le altre cose, attrezzature di supporto alla guardia costiera libica per un valore stimato di circa 800 milioni di euro. Solo una minima parte è stata però resa disponibile. L’idea di erogare maggiori fondi alle “autorità libiche” affinché collaborino nelle operazioni di ricerca e salvataggio non è a mio avviso praticabile senza una preliminare stabilizzazione del quadro politico e di sicurezza del paese. Detta in altri termini, a chi diamo questi soldi se non c’è un governo?
Chi sono le tanto citate “autorità libiche”?
Appunto. Il rischio sarebbe quello di vedere le nostre risorse finire nelle mani sbagliate con tutte le drammatiche conseguenze che possiamo immaginare. Puntare sulla Libia, su questa Libia, per arginare l’emergenza migranti è un fallimento annunciato.
Si può dire che l’attuale quadro politico libico, salvo alcuni sviluppi, è lo stesso che si è delineato nella fase di assestamento della guerra civile?
Per certi versi sì. In Libia in questo momento è in corso una vera e propria guerra civile nelle zone interne del Fezzan. Qui poche settimane fa nei pressi della base di Brak al Shati, controllata dalle milizie legate a Khalifa Haftar, sono stati uccisi da alcune milizie islamiste, probabilmente sfuggite di mano a Serraj, quasi 140 uomini fedeli al generale. C’è una crescente polarizzazione tra le forze dell’esercito nazionale libico di Haftar e alcune forze islamiste presenti nel territorio, così come accaduto nel 2014 quando vi è stata la “scissione” tra Tripoli e Tobruk. Un tale stato delle cose difficilmente porterà a nuovi assetti nel paese ma solo alla deriva della Libia.
Ma se è così, le risulta che l’Italia, soprattutto durante la presidenza di turno dell’Ue e anche nel 2015 abbia clamorosamente sottovalutato la gravità della situazione libica?
In parte sì. Da un lato l’Italia, come tutti gli altri paesi europei, ha certamente preso sottogamba ciò che stava accadendo in Libia, dall’altro però è stata l’attore che più ha tentato di trovare una soluzione, probabilmente tardiva, al caos che oramai era degenerato nel paese. Siamo stati soprattutto noi a volere gli accordi di Skhirat del dicembre 2015 per l’insediamento del Governo di accordo nazionale di Serraj e il ministro Minniti ha lavorato molto con gli attori di Tripoli per trovare qualche soluzione al problema dei flussi migratori.
Dalle coste tripoline parte il 90 per cento dei migranti che arrivano in Italia. Siamo il maggior importatore di petrolio e l’unico destinatario del gas libico e sono italiane molte delle attività estrattive offshore realizzate al largo della capitale.
Cos’altro potevamo fare, mi chiede. Forse qualcosa in più e quel qualcosa in più potrebbe voler dire tentare di assurgere al ruolo di “interlocutori di Tripoli” per mediare un accordo con gli alleati internazionali e regionali di Haftar.
Sulla Libia oggi si legge di tutto: dalla necessità di usare i campi Unhcr come base per i respingimenti dei migranti economici, a quella di pattugliare le coste per impedire le partenze, agli accordi da fare con i paesi africani di transito, alla necessità di intervenire a monte intercettando i flussi. Sono idee realistiche?
Sembra chiaro che al momento possiamo contare davvero poco sulla Libia. E’ necessario, dunque, agire in altro modo. Nel breve e medio periodo con accordi con i paesi di partenza e di transito, laddove possibile, come ad esempio il Niger a cui abbiamo garantito 50 milioni di euro per rafforzare le frontiere. L’Europa da questo punto di vista dovrebbe impegnarsi molto di più nello stanziamento di fondi. Ma serve anche agire in un’ottica di lungo periodo.
In che modo?
Ripensando la politica europea della cooperazione allo sviluppo, che purtroppo dagli anni 50 ad oggi è stata totalmente fallimentare. Tuttavia tali politiche richiedono un grande sforzo economico e una necessaria coesione a livello europeo e purtroppo al momento manchiamo di entrambe. Se l’Italia sarà costretta ad andare avanti da sola elemosinando qualche obolo ai riluttanti leader europei il problema non troverà mai una soluzione capace di reggere nel tempo.
Serraj sembra sempre più debole. E’ così?
Il problema è che Haftar non gode del consenso di tutta la popolazione libica. Ci sono importanti gruppi islamisti, come le numerose milizie di Misurata, che vedono Haftar come fumo negli occhi. Una soluzione per poter reggere nel tempo dovrà essere inclusiva e dunque coinvolgere il maggior numero di attori possibili, anche i gruppi tripolini.
In concreto?
Possiamo e dobbiamo ancora far valere la nostra posizione a Tripoli per tentare di mediare un accordo con l’est libico facendo perno sui suoi sponsor internazionali, Russia in primis. Questo, però, andrebbe fatto prima che altri attori, davanti a tutti la Francia, decidano per noi. Se ciò dovesse accadere avremmo buttato al vento tutto l’impegno che in questi ultimi anni abbiamo profuso in Libia per recuperare la posizione di primacy che Sarkozy prima e Hollande poi avevano scientemente tentato di sottrarci.
Haftar ha annunciato settimana scorsa la presa di Bengasi. Controllerà tutta la Libia? Ma soprattutto, è forse quello che dobbiamo auspicare?
Haftar si è allargato nel territorio, consolidandosi a Bengasi, città nevralgica della Libia. Detto ciò, ribadisco che da solo difficilmente potrà controllare tutto il paese. Qualche settimana fa è stato rimesso in libertà Saif al Islam Gheddafi, tenuto sotto controllo dalle milizie di Zintan fedeli all’est libico. L’obiettivo forse era quello di consolidare e rafforzare il fronte dell’est aprendo anche agli ex gheddafiani, ancora presenti nel paese. E’ presto, tuttavia, per fare previsioni su un suo possibile ruolo politico nel futuro del paese. Stando così le cose, un rafforzamento di Haftar rischia di esacerbare gli animi dei gruppi islamisti. Lo scenario più plausibile è quello di una recrudescenza degli scontri nel paese.
Come incide la crisi politica del Golfo Persico in quanto accade in Libia?
Il Qatar, a differenza dei suoi “ex amici del Golfo”, sostiene gli islamisti libici. Anche per questo al Sisi, alleato del fronte laico di Haftar, ha imposto che nella lista nera degli sponsor del terrorismo — stilata da Egitto, Emirati, Bahrein e Arabia Saudita — ci fossero tutti i nemici sul terreno del generale tra cui l’ex leader del Gruppo combattente islamico libico Abdelhakim Belhadj e le Brigate di difesa di Tripoli. Senza i finanziamenti del Qatar questi attori difficilmente riusciranno a resistere a lungo, favorendo, di conseguenza, l’ala di Tobruk. Ma la Turchia, alleata storica degli islamisti tripolini, potrebbe aumentare gli stanziamenti, riequilibrando la partita.
Secondo lei che cosa dobbiamo fare rispetto ai partner europei?
Continuare ad insistere perché via sia una “regionalizzazione” dell’approdo dei migranti tratti in salvo nel Mediterraneo e dunque l’apertura di nuovi porti europei, se necessario alzando di più la voce. E’ necessario spingere l’Europa a sanzionare i paesi che non hanno aderito alla politica dei ricollocamenti e, al contempo, estendere i ricollocamenti a nuove nazionalità.
E a livello internazionale?
Trump pare poco interessato alla questione libica mentre Putin è parte in causa, essendo sponsor e alleato di Haftar. Per questo l’Italia deve dialogare di più con Mosca, per cercare un accordo intra-libico e per tentare di arginare il problema dei flussi in partenza.
(Federico Ferraù)