Al centro del New Jersey si trova uno dei college più liberal d’America, Rutgers University. Guardando cartelli, bandierine e adesivi affissi alle porte degli uffici, e intercettando brandelli di conversazione nella Faculty Dining Hall, il ristorante dove i professori si ritrovano a pranzare, sembra che l’ipotesi di “opzione” politica non sia mai stata presa in considerazione. Semplicemente, si vota tutti Obama, l’uomo che ha promesso di rafforzare ricerca ed educazione raddoppiando per i prossimi dieci anni i fondi per essa stanziati, in contrapposizione al congelamento per i fondi alla ricerca avanzato dal Senator McCain. E questo è un punto a cui Rutgers è particolarmente sensibile, per via degli ingenti tagli al budget dell’università operati dal governatore del New Jersey,il Democratico Jon S. Corzine, negli ultimi anni (66 milioni di dollari in meno nel solo 2007).
Ma cosa pensano gli studenti di queste elezioni? Non ci si aspetti di capirlo cercando tra i manifesti appesi sulle bacheche o assistendo a qualche acceso diverbio per i corridoi dei dorms. Come le convinzioni religiose, così anche le proprie posizioni politiche qua non si sbandierano, ognuno porta avanti le proprie nel silenzio della propria cameretta, cercando di non urtare con allusioni o commenti le idee dell’amico. Per cercare di capire qualcosa di più oltre la muraglia del politically correct, ho invitato dopo lezione i miei 40 studenti a trovarci in pizzeria per una chiacchierata sulla politica. E quello che mi hanno raccontato tra un boccone e l’altro fa emergere un quadro molto più variegato di quello dipinto dal quotidiano dell’università (anch’esso, rigorosamente Democrat).
Molti fra loro sono sinceramente appassionati di politica, e in maniera non superficiale: trovano ogni giorno il tempo per leggere articoli e commenti su blog e quotidiani – ogni mattina le centinaia di copie del New York Times nell’edicola del campus sono esaurite in 15 minuti – e per seguire dibattiti e comizi in televisione o sul web. I discorsi in pubblico rappresentano per loro uno strumento fondamentale per giudicare il candidato: più che la lista di punti sciorinati nei voluminosi programmi, guardano all’imbarazzo di Obama per le domande dell’idraulico Joe e agli scivoloni di Sarah Palin interrogata di economia, a chi sa sostenere accuse senza andare in escandescenza e a chi meglio riesce a discorrere coi capi di Stato esteri. E leadership e carisma sono la prima cosa che cercano nel futuro presidente.
Ma non solo. Nell’attuale situazione di crisi del paese, si interrogano su quale proposta soluzione economica consentirà loro, tra uno o due anni, di entrare nel mondo del lavoro e di ripagare gli ingenti debiti stipulati per potersi pagare l’università senza angoscia eccessiva. E per i tanti figli di immigrati, l’immigrazione è la tematica centrale. Per gli asiatici e i latino-americani che provengono da famiglie numerose, all’università si accede grazie al duro lavoro dei genitori, impiegati in mansioni di basso e bassissimo livello per poter assicurare al figlio la promessa di un futuro diverso. Ma soprattutto quando non riescono ad ottenere un permesso di soggiorno regolare, questo diventa un miraggio quasi impossibile: ai figli non viene concesso nessun tipo di finanziamento o borsa di studio e si trovano a pagare più dei loro compagni americani, in quanto cittadini stranieri.
Curiosamente, gli studenti di Rutgers si proclamano indipendenti nella formulazione delle loro opinioni politiche, e ritengono di seguire semplicemente il loro giudizio nella valutazione dei candidati, ma alla fine per ciascuno la scelta politica coincide con quella dei genitori. E a sorpresa, è proprio la famiglia l’ambito dove queste cose vengono frequentemente messe a tema. Non tra amici – dove “facilmente una conversazione su questi temi può degenerare in feroce discussione, e non si può litigare per questo” – ma con i propri fratelli e genitori: si guarda insieme alla sera il dibattito in TV e con loro si cerca di capire chi andare a votare e perché.
(Martina Saltamacchia, New Jersey)