Secondo quanto scrive Paul Harris nel britannico The Observer, e riportato da The Week, “quando il progressista professore di Diritto Barack Obama venne eletto nel 2008, molti suoi sostenitori si aspettavano un rovesciamento della intransigente politica militare e di intelligence che aveva caratterizzato la presidenza di George W. Bush. Invece, l’ampia portata della politica di Obama sulla sicurezza nazionale ha sorpreso perfino fervidi sostenitori di Bush e i membri dell’establishment di Washington”.
Obama ha fortemente aumentato l’utilizzo degli attacchi con i droni e sovraintende personalmente a una “lista di eliminazione” dei sospetti terroristi. Ha usato il pugno di ferro contro le spie, approvato gli attacchi cibernetici contro l’Iran e rifiutato di chiudere Guantanamo Bay, come invece aveva promesso nella sua campagna elettorale.
Come mai Obama è diventato un simile “falco”? The Week propone quattro possibili teorie.
1. Nel 2008 Obama “non ha fatto una campagna da ‘colomba’”, come osserva James Joyner su Outside the Beltway, che però riconosce un successivo aumento di aggressività. La spiegazione è ovvia: “È diventato presidente”. Senza dubbio è “più facile essere fedele ai principi delle libertà civili, dei giusti processi, della trasparenza nelle informazioni, e via dicendo” quando non si ha sulle proprie spalle il peso di proteggere la nazione, con “un diluvio di informazioni quotidiane, se non addirittura orarie” circa “tutto quello di brutto che potrebbe succedere” se non si prendono azioni.
2. L’apparato della politica estera è composto da “duri”, il presidente non è unico nella schiera, dice Aaron David Miller su Foreign Policy. Se non altro, questa impronta gli è arrivata da “un notevole consenso tra Democratici e Repubblicani sul cuore della politica estera” dopo l’11 settembre. Un consenso, con la conseguente politica di Obama, che “sono ora una teologia bipartisan”. Inoltre, nessun presidente in un futuro prevedibile proverà a smantellare “il duro e ampiamente efficace approccio al controterrorismo “dei passati presidenti.
3. Non del tutto casualmente, l’aggressiva politica estera di Obama aiuta “a metterlo al riparo dalle accuse di ‘debolezza in materia di difesa’ portate storicamente dai Repubblicani contro i Democratici” nota Michael Shear su The New York Times. I progressisti possono non apprezzare tutto ciò, ma la “durezza” di Obama ha neutralizzato i tentativi di Mitt Romney di dipingerlo come “un leader con una politica estera debole e indecisa”.
“Applaudiamo l’uso abile e deciso da parte di Obama di forme diverse di forza, come gli attacchi cibernetici”, è scritto in un editoriale del New York Daily News. Ma non dovrebbe ottenere vantaggi politici facendo trapelare notizie alla stampa, perché a volte gli uomini pubblici hanno “il dovere morale, strategico e giuridico di conservare i segreti”.
4. La Casa Bianca nega “nel modo più assoluto” di aver passato informazioni circa attacchi cibernetici all’Iran, ma in altre questioni riguardanti la sicurezza, specialmente se già riportate dai media, Obama ha consciamente “cercato di essere più aperto” dei suoi predecessori, dice Adam Levine alla CNN. Tenere il pubblico informato per quanto possibile senza compromettere la sicurezza, è “un obbligo”, dice alla CNN Tommy Vietor, portavoce del National Security Council: “Come atteggiamento generale noi spingiamo per essere trasparenti quanto possibile, tenendo conto della nostra sicurezza nazionale”.
Abitando nell’area di New York City, non posso negare di sentirmi più sicuro grazie alla politica antiterroristica di Obama. Tuttavia, come cattolico, non posso non riconoscere la mancanza di giudizi che derivino dall’insegnamento della Chiesa, incluso l’insegnamento tradizionale sulla “giusta guerra” o le testimonianze di chi porta con sé una vocazione pacifista.
Ci si presenta ancora una volta la questione di come rispondere al secolarismo, che pretende di essere capace di sviluppare un’etica secolarista globale che ci guidi tutti nell’affrontare questioni come la giustizia, la guerra e la pace.
Nel libro Etica, religione e Stato liberale, il filosofo Jürgen Habermas e l’allora Cardinal Ratzinger discutono questa possibilità. Ratzinger riconosce le attuali difficoltà dell’approccio attraverso la legge naturale e Habermas riconosce che qualcosa viene a mancare nella ricerca secolarista, a meno di includere il concreto contributo della religione come parte inseparabile di ogni etica globale. L’urgenza di un simile dialogo è del tutto evidente per noi qui negli Stati Uniti.