Mentre le grandi potenze mondiali, anziché attuare una strategia rapida ed efficace per affrontare l’Isis in Siria, “battibeccano” nell’arena mediatica a suon di frecciatine, “pugnalate alla schiena”, accuse di “giocare con il fuoco”, scuse e smentite, lo stato islamico non sta a guardare e pianifica la sua possibile contromossa, o se si preferisce la sua exit strategy dal teatro siriano, in questo momento davvero troppo affollato. Una exit strategy che sembra puntare verso la Libia, divenuta oramai il primo stato al di fuori di Iraq e Siria dove l’Isis governa davvero.
Nulla di cui stupirsi se si pensa che le milizie affiliate allo stato islamico hanno iniziato ad occupare la cittadina libica di Sirte già nel febbraio di quest’anno e in tutta tranquillità sono riuscite a farne una delle principali “colonie” di Isis che qui ha il controllo di una vasta area (circa 250 km di costa), presidiata da un gran numero di foreign fighters (se ne contano circa 2mila solo a Sirte e tra i 3mila e 4mila in tutta la Libia, ma i numeri sono presumibilmente in difetto) che la amministrano con il solito copione: terrorizzando i locali e imponendo la sharia.
A ben guardare la conformazione socio-territoriale della Libia, non è difficile immaginare come questa potrebbe costituire senza dubbio una meta ideale per lo stato islamico, che potrebbe radicarsi ben oltre i confini di Sirte e, magari, trasferire qui la sua capitale.
In primo luogo la Libia, a differenza delle Siria, è ricca di petrolio con cui, si sa, l’Isis è abilissimo nel finanziare le proprie attività. Lo stato islamico potrebbe puntare ad ampliare le proprie scorte energetiche attraverso l’espansione verso la cosiddetta “Mezzaluna petrolifera”, un’area che si estende tra Sirte e Bengasi dove, però, i giacimenti e i terminal sono controllati da affiliati alle autorità di Tobruk. Se le milizie del califfato riuscissero anche in questa impresa avrebbero la possibilità di arricchire ulteriormente il business energetico, traendone una fonte di finanziamento di primaria importanza. Tra le altre cose, l’oro nero libico per essere trasportato e venduto non avrebbe neppure bisogno di tortuosi passaggi in confini di paesi nevralgici per la Nato (vedi la Turchia per la Siria).
Ad arricchire ancor più le tasche del sedicente califfato, poi, ci sarebbe il fiorente traffico di immigrati (un giro d’affari stimato, in totale, intorno ai 10 miliardi di dollari l’anno), da cui le milizie locali affiliate ad Isis traggono già notevoli introiti e che, vista l’attuale noncuranza del problema da parte delle cancellerie internazionali, potrebbero ampliare ulteriormente.
Infine la Libia potrebbe essere un terreno privilegiato per l’instaurazione di uno stato islamico perché, a differenza della Siria, qui non esiste nessun governo; nessun ex dittatore da difendere, che potrebbe richiedere una qualche “intromissione internazionale”; nessuno scontro epocale, almeno per ora, tra sunniti e sciiti, che potrebbe comportare una “fastidiosa” ingerenza di potenze regionali.
La Libia oggi è divisa tra due “governi che non governano”. Da un lato il governo di Tobruk, riconosciuto dalla comunità internazionale ma con un peso specifico piuttosto limitato nel territorio, dall’altro quello di Tripoli, anch’esso tutt’altro che rappresentativo della maggioranza della popolazione. In mezzo, una pletora di tribù che governano su porzioni di territorio e di formazioni di miliziani armati. Se le tribù potrebbero rappresentare una criticità per l’espansione territoriale del califfato — visto che fino ad ora hanno dimostrato di non essere affatto inclini ad abbracciare la causa dello stato islamico o a lasciarsi sottomettere senza combattere — molte delle milizie e bande amate presenti sul territorio, invece, potrebbero costituire in bacino di reclutamento di tutto rispetto. E a proposito di bacino di reclutamento, va ricordato che l’ex Jamahiriyya ha dei confini estremamente porosi e per di più scarsamente controllati da cui far transitare jihadisti e neo-reclute, si pensi solo che la confinante Tunisia ha esportato più di 5mila combattenti in Siria ed in Iraq dal 2011 ad oggi.
Davanti a questo quadro, per certi versi “allettante” per i boia del califfato, non stupisce che i suoi vertici abbiano pensato alla Libia come la “seconda casa” in cui rifugiarsi dopo avere abbandonato il caotico e affollato teatro siro-iracheno.
Da questo punto di vista sarebbero sempre più credibili le voci, provenienti da alcune milizie di Misurata (e riportate anche dal Wall Street Journal), che parlano di un esodo in corso della leadership dell’Isis in territorio libico. Naturalmente i vertici del califfato prima dell’arrivo starebbero predisponendo una calorosa accoglienza, convogliando a Sirte un vero e proprio fiume di reclute straniere.
Insomma, mentre tutti i riflettori sono puntati sulla Siria l’Isis potrebbe preparare il grande colpo, lasciando (almeno per un po’) il teatro siriano libero per i giochi di potere e per le scaramucce da “prime donne” delle grandi potenze internazionali, per colpirle, però, alle spalle proprio dalla Libia.