I tragici fatti di Parigi hanno riproposto l’interrogativo sull’identità europea e sulla tenuta dei suoi modelli di convivenza, chiamati a garantire la sicurezza e la libertà di tutti. Intanto gli hacker estremisti attaccano gli account del comando Usa in Medio oriente, il governo italiano smentisce le voci di attacchi imminenti contro Vaticano e i vignettisti di Charlie Hebdo tornano in edicola con Maometto in prima pagina (il fondatore dell’islam tiene in mano un cartello con su scritto “Je suis Charlie”). Ma è sulle risposte che l’occidente si divide. Ne abbiamo parlato con Mario Mauro, senatore di Popolari per l’Italia, già vicepresidente del Parlamento europeo e ministro della Difesa nel governo Letta.
Giuliano Ferrara chiede di mandare 200mila uomini in Medio Oriente contro l’Isis. La stampa anglosassone dice che l’Europa sbaglia a seguire il format “scontro di civiltà” e sollecita realismo geopolitico. Che ne pensa?
Il fatto che l’Isis sia una realtà che vada eliminata è verissimo, e credo che non ci sia altro tempo da perdere. Un’azione militare contro il cosiddetto “Stato islamico” non significa affatto che ci apprestiamo a combattere una guerra di civiltà. Al contrario, un risultato sul campo lo si può ottenere solo contando sul supporto delle tribù sunnite irachene che, maltrattate dal governo di Al-Maliki, hanno fornito supporto logistico e miliziani ai terroristi. Allo stesso tempo, all’indomani delle stragi di Parigi occorre innanzitutto evitare di farsi impantanare nelle paludi del politicamente corretto, che vorrebbe escludere la religione dalla società o usarla politicamente come movente delle stragi. Non dobbiamo infatti dimenticare che l’ideologia fondamentalista ha mietuto decine di migliaia di vittime innanzitutto tra i musulmani sunniti, penso per esempio alle 160mila vittime algerine durante il periodo più cupo degli anni 90.
Dunque la colpa è dell’islam o no?
L’islam ha al suo interno un grave problema, un bubbone ventennale caratterizzato da un radicalismo teologico-politico che va eliminato aiutando, innanzitutto, la parte sana dell’islam. Sarà estremamente difficile trovare soluzioni adeguate fintanto che all’interno delle Nazioni Unite verrà consentito di pubblicizzare e rilanciare il dibattito sui temi legati alla predicazione fondamentalista. Il tema del fondamentalismo non deve essere ritirato fuori dal cilindro in queste settimane solo alla luce del pericolo costituito dall’Isis, ma deve essere condotta una battaglia di democrazia per promuovere in maniera unitaria l’idea di convivenza civile che la comunità internazionale è chiamata a costruire. In questo anche l’Unione europea deve sciogliere alcuni nodi legati al proprio progetto politico.
In questo frangente ancora una volta si parla di Europa. La testa del corteo di Parigi era piena di leader europei. Ma chi è l’Europa?
La domanda “chi è l’Europa?” è un ritornello che sentiamo da decenni e a cui non abbiamo forse ancora il coraggio di rispondere, troppo impegnati a far prevalere i nostri interessi nazionali su quelli del popolo europeo, troppo assorbiti da distorte idee di libertà e di progresso.
I leader europei in marcia a Parigi hanno riproposto uno schema culturale classico: fermezza “non violenta”. Cosa significa? E’ una posizione realistica?
Al di là degli slogan, dal punto di vista della gestione della sicurezza interna la strada da seguire non può che essere quella di potenziare tutti i dispositivi di sicurezza nei confronti degli obiettivi sensibili e di aumentare la collaborazione e lo scambio delle informazioni sui potenziali terroristi presenti sul territorio europeo.
Hollande l’altro giorno ha detto che “Parigi è la capitale d’Europa”. Lei che è stato per tanti anni nella presidenza dell’europarlamento, è d’accordo?
Sì, uno dei punti di forza dell’Europa è proprio il suo motto, “uniti nella diversità”. Dopo la strage di Parigi io aggiungerei anche “uniti nelle avversità”. Parigi è quindi la capitale di un’Europa che non ha nessuna intenzione di cedere di fronte a chi utilizza il nome di Dio per il proprio progetto di potere invocando Dio ed uccidendo gli uomini.
Qual è secondo lei l’Europa che gli jihadisti hanno davvero attaccato, e qual è l’Europa che è più politicamente e idealmente attrezzata per confrontarsi con l’islam?
E’ difficile dire quale sia l’Europa che c’è nella testa dei terroristi. Di certo, dall’esterno siamo percepiti come un continente molto fragile perché diviso dal punto di vista politico, nonostante le istituzioni europee siano una realtà ormai consolidata. Il mio augurio, in chiusura del semestre europeo a guida italiana, è che ci sia un inizio effettivo di una vera politica estera della Ue e che non ci tocchi considerare tra pochi mesi l’Alto rappresentante come l’ennesimo dirigente soprammobile chiamato a ratificare le non decisioni prese da ogni singolo stato membro. L’Europa più adeguata ad un confronto con l’islam è un’Europa che ha piena coscienza della propria storia e delle proprie radici. Non il mondo di questi giorni, ma il mondo che si è aperto dopo l’11 settembre ci chiede pensieri forti per poter reggere il governo della globalizzazione e la sfida del terrorismo.
Quindi?
Occorre costruire un soggetto dall’identità forte, plurale, aperto, democratico. Dobbiamo consolidare un progetto politico che sappia affrontare il tema fondamentale della competitività dell’Europa coniugando competitività e solidarietà, secondo un modello nel quale solidarietà e questione sociale sono un fattore di competitività e la competitività è la condizione prima anche per alimentare una “welfare society” generosa.
Queste forze si devono unire per fare in modo che i valori della civiltà liberale e cristiana non vengano abbandonati in nome di una fragilità culturale che rischia di sconfinare nel nichilismo.
Parigi è stata il rifugio dei fuoriusciti italiani negli anni 30, ma anche dei brigatisti rossi negli anni 70. In questi giorni non sono pochi quelli che, con toni diversi, invitano a riflettere sul rischio persistente di “ambiguità” — in Europa — nell’elaborare in via intellettuale o di quotidianità politica le diverse istanze di libertà, se non di antagonismo. Come vede questo aspetto?
Non possiamo esimerci dal fare delle considerazioni sul modo in cui sta cambiando il terrorismo di matrice islamista nella struttura dei nostri paesi. A quella che è la tradizionale posizione fondamentalista oggi non si associa più un appello rivolto all’organizzazione di una rete capace di portare avanti la strategia terroristica. Il nuovo richiamo si indirizza invece, paradossalmente, alle coscienze. Così come avevano fatto i terroristi all’indomani dell’attentato di Atocha a Madrid, scrivendo “Vinceremo noi, perché amiamo la morte più di quanto voi teniate alla vita”. È proprio per questo che il vero contrasto al terrorismo passa attraverso la sfida delle coscienze, da ridestare in una posizione vera e forte. È nella coscienza di ognuno di noi che deve maturare la consapevolezza che il terrorismo si batte se si battono le sue ragioni. Vinceremo la battaglia contro il fondamentalismo e il suo progetto di potere se non rinunceremo a ciò in cui crediamo, se continueremo ad essere noi stessi e se non cederemo alla logica della violenza.