La richiesta del presidente Abu Mazen all’Onu di riconoscere uno Stato palestinese ha riacceso lo scontro tra filoisraeliani e filopalestinesi un po’ in tutto il mondo. In un certo senso, la guerra pluridecennale tra questi due popoli rievoca le divisioni che, sui banchi di scuola, ha sempre creato la guerra di Troia, con gli israeliani al posto dei greci, più forti militarmente e un po’ arroganti, e i palestinesi dei troiani, più deboli e quindi, al fondo, più simpatici.
Purtroppo, ciò che sta avvenendo in Terra Santa da più di sessant’anni non è un racconto epico, ma una tragedia reale, cui non si riesce a mettere fine. Come sostiene Robi Ronza in un suo recente articolo, anch’io credo che una soluzione pacifica definitiva possa essere raggiunta solo direttamente da israeliani e palestinesi. Dopo un così lungo periodo di conflitto, torti e ragioni non possono che essere intrecciati e difficili da dirimere dal di fuori.
Su questo quotidiano sono apparsi nei giorni scorsi due articoli, uno di Tommaso Saltini e l’altro di Marina Calculli, in cui si attribuisce sostanzialmente, sia pure in modo accorato, la colpa dello stallo nelle trattative agli israeliani. Secondo Saltini, il principale ostacolo è rappresentato dal progredire degli insediamenti di coloni israeliani in territorio palestinese. Questo è senz’altro uno dei punti più difficili da accettare, oggettivamente contro il processo di pace, e l’attuale governo israeliano sta mettendo a serio rischio il suo popolo con un’azione politica fortemente criticata, tra l’altro, anche dai governi amici. Anche se non bisogna dimenticare che Israele attuò una moratoria nella costruzione degli insediamenti, senza nessun apparente risultato.
Detto questo, non credo sia semplice, per un Paese che è in guerra da più di sessant’anni, accettare le logiche della “normale” politica. Qui da noi si continua a dimenticare che nel 1948 furono gli stati arabi ad attaccare il neonato Stato di Israele (lì i più deboli erano gli ebrei) e che da allora si sono sempre rifiutati di firmare la pace, a eccezione di Egitto e Giordania, rispettivamente 31 e 46 anni dopo. Se anche gli altri stati arabi avessero firmato la pace e smesso di predicare la distruzione di Israele, credo che ora la situazione sarebbe ben diversa.
Vi è qualcosa di paradossale nella richiesta all’Onu di riconoscere uno Stato palestinese, perché fu proprio l’assemblea dell’Onu nel 1947 a decretare l’esistenza dei due Stati, quello ebraico e quello arabo. Si può giudicare anche quella decisione totalmente sbagliata, e così la giudicarono gli stati arabi che non la accettarono, impedendo la costituzione di uno Stato palestinese, nel 1948 e dopo.
Infatti, si parla oggi correttamente di occupazione dei Territori a seguito della guerra del 1967, ma nessuno pare chiedersi perché in quei vent’anni non si è costituito nessun Stato palestinese. Sarà forse bene ricordare che nel 1948 alla guerra contro Israele partecipò la Transgiordania, l’unica a uscirne vittoriosa grazie alla Legione Araba comandata dall’inglese Glubb Pascià, e che solo dopo il 1948 si chiamò Giordania, avendo annesso la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
Difficile quindi dare torto a chi sostiene che uno Stato palestinese esisteva di fatto già da allora, appunto la Giordania, in cui erano stati inglobati i territori attribuiti dall’Onu agli arabi, con l’eccezione di Gaza, occupata nello stesso periodo dall’Egitto. Vi è da annotare che, anche senza Gerusalemme Est e Cisgiordania occupate ora da Israele, circa il 40% della popolazione della Giordania è di origine palestinese.
In quegli anni vi è stata forse una possibilità concreta di risolvere il problema, ma mantenere la situazione di conflitto era probabilmente funzionale alla Guerra Fredda (se gli Usa sostenevano Israele, l’Urss e i suoi sostenitori occidentali appoggiavano in tutti i modi l’Olp “rivoluzionaria”) e gli arabi avevano come obiettivo principale la distruzione di Israele, tuttora perseguita da Hamas e già presente nello statuto di Al Fatah. Anche oggi rimane difficile ogni trattativa che non preveda esplicitamente, e senza riserve, il diritto all’esistenza di Israele.
Marina Calculli pone l’accento su un altro grande ostacolo alla pace: il problema dei profughi palestinesi che, scrivendo dal Libano, ha sotto gli occhi in tutta la sua drammaticità. Porre il cosiddetto “diritto del rientro” come uno dei punti preliminari a una pace definitiva è l’equivalente arabo degli insediamenti israeliani, dato che Israele non potrebbe mai sostenere il peso del rientro di milioni di questi profughi.
Ci si potrebbe domandare, però, perché le organizzazioni palestinesi e i paesi arabi fratelli non sono riusciti a risolvere questo problema, nonostante i notevoli aiuti finanziari provenienti un po’ da tutto il mondo. Ora i profughi si calcolano essere milioni, ma nel 1948 furono costretti a lasciare le loro case, si stima, circa 750mila palestinesi. In quegli stessi anni, milioni di tedeschi e di polacchi furono cacciati dai territori tedeschi diventati polacchi, e da quelli polacchi annessi all’Urss. In quegli stessi anni, da 200 a 350mila italiani furono cacciati da Dalmazia e Istria. E si parla raramente degli ebrei espulsi, dopo la costituzione dello Stato di Israele, dal Nordafrica e da altri paesi arabi del Medio Oriente, in un numero equivalente a quello dei profughi palestinesi del ‘48.
Questi milioni di profughi sono riusciti a integrarsi in una nuova Patria di cui i loro figli sono ora liberi cittadini, sia pure con molte difficoltà, quando non con vere e proprie tragedie familiari, mentre solo i palestinesi sono da allora ancora nei campi profughi. I tedeschi non sono tornati in Slesia, né gli italiani in Dalmazia o Istria, o i polacchi nelle loro terre di origine, e una loro richiesta in tal senso sarebbe giudicata improponibile, o provocatoriamente revanscista nei confronti degli Stati che ora occupano quei territori a seguito della Seconda guerra mondiale.
È difficile respingere del tutto il sospetto che si siano utilizzati, e si stiano ancora utilizzando, i profughi come un’arma impropria, di cui le prime vittime sono i profughi stessi. Tommaso Saltini invita giustamente a considerare che vi è un presente da salvare, costituito da un popolo intero ancora senza libertà. Ma se questo accorato appello non vuol rimanere pura retorica, è necessario far memoria di tutto quanto precede questo presente, crudele non solo per i palestinesi, ma anche per gli israeliani.
E del presente fa parte l’ultimo punto da sottolineare: anche se lo volesse, con chi firmerebbe Israele un accordo di riconoscimento di uno Stato palestinese? Abu Mazen controlla solo la Cisgiordania e la sua organizzazione è stata buttata fuori, sanguinosamente, da Gaza a opera di Hamas, appena gli israeliani se ne sono andati. Hamas ha ancora come obiettivo dichiarato la distruzione di Israele e, se fosse associata nel governo del nuovo Stato, finirebbe per eliminare ogni concorrente anche in Cisgiordania per continuare la sua guerra radicale contro Israele.
Come è stato evidenziato, i cambiamenti di regime nella regione non sono favorevoli a Israele e questo può accentuarne una pericolosa sindrome da accerchiamento. È quindi ancor più necessario che chi tiene veramente alla pace tra questi due martoriati popoli faccia di tutto perché possano incontrarsi.
Le persone normali, arabi o israeliani che siano, vogliono solo vivere in pace e bisogna aiutarli a sfuggire alla malvagia propaganda di chi li vorrebbe martiri della propria visione ideologica del popolo, dello Stato e della religione.