NEW YORK — Far guerra alla violenza. Se c’è una conseguenza percepibile della tragedia di Parkland in Florida dove il grido disperato della solitudine e della mancanza di significato ha calpestato 17 giovani vite, è questa. Potrebbe sembrare un paradosso, ma nel momento in cui per il dolore, la preoccupazione e l’urgenza di trovare spiegazioni e possibilmente rimedi dovremmo sentirci gli uni vicini agli altri in difesa di un comune senso di umanità, in difesa della nostra gioventù, del nostro presente e futuro, ci si schiera e ci si combatte.
C’è chi attacca e c’è chi, sentendosi sotto attacco, si barrica attendendo il momento adatto a contrattaccare. E’ innegabile che la violenza di cui stiamo parlando trovi il suo strumento di morte nelle armi da fuoco, e che l’accesso a queste sia per un giovane americano troppo facile. Molto più facile che noleggiare un’auto o procurarsi una birra. Per negarlo bisognerebbe essere ciechi ed ottusi.
Ma bisognerebbe essere altrettanto ciechi ed ottusi per non vedere che non è da lì, non è dalle armi da fuoco che questa violenza nasce. Bisogna anche essere ciechi ed ottusi per non capire che c’è un modo di affrontare e combattere la violenza e i suoi strumenti che non genera che altra violenza. Forse – o certamente, secondo alcuni – se qualche forma di “gun control” esistesse non ci troveremmo così spesso a piangere su tante giovani vite spezzate. E’ questo il grido che continua a levarsi da Parkland, tra interviste e manifestazioni di protesta.
Due giovani scampate alla strage, Christine Yared ed Emma Gonzales si sono fatte paladine di questo impegno: “Non possiamo lasciare che persone innocenti siano morte invano. Abbiamo bisogno di una legge più dura sul controllo delle armi”. L’abbiamo detto, non basta, ma è giusto. Ma dov’è che ciò che dovrebbe unirci finisce per dividerci? Nella violenza con cui giudico l’altro, quello che non la pensa come me – sulle armi (in questo caso) o su qualsiasi altra cosa. E naturalmente nella violenza con cui chi si sente attaccato risponde, con un altrettanto aspro giudizio morale sull’intera concezione di vita altrui. Così il “gun control” diventa terreno fertile per una sempre più acuta, profonda e dolorosa polarizzazione.
Le persone che difendono il diritto a portare armi si sentono attaccate non tanto e non solo per la loro fedeltà a quel benedetto o maledetto Second Amendment, si sentono attaccate su tutta la loro concezione di vita, sui valori che la costituiscono e la animano. Sulla loro dignità ed identità come persone e come comunità. Spesso la loro risposta non è da meno: che valore può avere chi non mi rispetta? Perché mai dovrei ascoltarlo? Ignora e rigetta. In questo muro contro muro nessun passo sembra essere mai adeguato, perché nessun passo è mai veramente rivolto ad incontrare l’altro.
Che significato ha, che differenza fa che Trump, accusato di difendere gli interessi (enormi) della National Rifle Association (la Nra ha sostenuto la campagna presidenziale di Donald), se ne venga fuori oggi appoggiando il “Bump Stock Ban” (la messa al bando della conversione di armi semi-automatiche in automatiche; quelle usate nella strage di Las Vegas, tanto per capirci)? E che differenza farà portare migliaia di persone in strada per opporsi ad altre migliaia? Costringere il Congresso a votare a favore di serie restrizioni? Può darsi. Ma fatemelo dire in altri termini: che differenza fa sconfiggere “il nemico” quando il nemico è il tuo vicino di casa? Che sconfitta della violenza è imporre la pace mettendo a tacere metà paese? Bisogna imparare ad incontrarsi, a dialogare, bisogna imparare ad usare il preconcetto (inevitabile) come apertura di domanda e non come sentenza ultima del valore dell’altro. Quando questo accade ogni passo, anche il cambiamento o la rinuncia, diventano una vittoria. E’ questo il compito per tutti. God Bless America.