«L’accordo raggiunto tra governo e opposizione in Egitto è un segnale positivo, ma è ancora presto per dire che rappresenti la svolta. In una fase in cui le violenze contro i manifestanti non sono cessate e il regime continua a torturare quelli che reputa dei personaggi scomodi, la situazione permane ancora molto confusa e il rischio è che i terroristi possano approfittarne». Ad affermarlo è Guido Olimpio, inviato ed esperto di terrorismo de Il Corriere della Sera, nel giorno dell’accordo tra il vicepresidente Omar Suleiman e le opposizioni. L’intesa sancisce la fine dello stato d’emergenza, in vigore dal 1981, e il fatto che i responsabili delle violenze contro i manifestanti dovranno presentarsi di fronte a un tribunale.
Ilsussidiario.net ha chiesto a Guido Olimpio di commentare i nuovi scenari che si aprono anche alla luce della sua passata esperienza di corrispondente del Corriere da Gerusalemme, che gli consente di leggere gli accadimenti di questi giorni senza trascurare un punto fondamentale come la sicurezza dello Stato d’Israele.
Guido Olimpio, ritiene che l’accordo tra governo e opposizione possa essere la base per una pacifica transizione verso la democrazia?
È molto presto per dirlo, anche perché sia Mohammed ElBaradei sia i Fratelli musulmani hanno detto di non essere del tutto soddisfatti delle concessioni di Suleiman. È un segnale di apertura in un contesto che permane di estrema confusione, come si è visto anche dal fatto che gli Stati Uniti hanno smentito il loro stesso inviato Frank Wisner. Sono tanti i punti ancora da chiarire e quindi non si può parlare di una vera svolta.
L’opposizione può fidarsi di una transizione con Hosni Mubarak ancora alla presidenza?
Una parte dell’opposizione egiziana è favorevole a questa ipotesi, altri vogliono che si dimetta subito. I diversi partiti stanno lavorando a una soluzione in grado di salvare la faccia a tutti, con tocchi, ritocchi e continui aggiustamenti, anche se è innegabile che oggi (ieri, ndr) siano state recepite alcune istanze importanti dell’opposizione e degli Stati Uniti. Ma occorre sottolineare che le violenze contro i manifestanti in Egitto non sono ancora cessate, e che anche in questi giorni il regime continua a torturare quelli che reputa come dei personaggi scomodi per la sua stabilità. I passi avanti vanno quindi misurati giorno per giorno. È difficile dire che in Egitto ci sia già la luce, piuttosto ci sono dei punti luminosi che si stanno accendendo qua e là.
Fino a che punto il nuovo corso dell’Egitto può diventare una minaccia per Israele?
Ovviamente non sappiamo come andrà a finire e la situazione è ancora in evoluzione. Ma nell’ipotesi in cui non si verifichino colpi di scena, ci sarà una transizione e si giungerà a elezioni, e forse anche a delle elezioni libere. In questo caso ritengo che non ci siano grandi pericoli per lo Stato di Israele, soprattutto nell’immediato. Perché un Paese che affronta per la prima volta un processo democratico, è impegnato al suo interno e non ha nessun motivo per essere aggressivo verso l’esterno. Certo, abbiamo visto che anche in questi giorni il regime egiziano, nei momenti di difficoltà, ha subito tirato in ballo complotti stranieri e se la è presa con i giornalisti: ma in realtà questi sono soltanto dei diversivi. Non escludo che potenzialmente ci siano dei rischi, ma al tempo stesso ritengo che nel lungo termine i processi democratici, ammesso che avvengano, non rappresenteranno una minaccia per Israele, anzi saranno un aiuto.
Alcuni hanno accostato i Fratelli musulmani ai fondamentalisti. È veramente così?
No, guardi, su questo bisogna subito fare alcune distinzioni. La Fratellanza musulmana in generale cerca di andare al potere non con la violenza, ma attraverso dei processi elettorali e politici. È questa la sua strada. Al suo interno ci sono poi varie anime. C’è un’anima moderata, una realistica e pragmatica e anche una estremista. Ma in questa fase credo che i Fratelli musulmani si rendano conto che ci sono delle condizioni ben chiare, per cui o accettano le regole che verranno loro poste dall’esercito e dalle autorità che succederanno a Mubarak, o altrimenti rischieranno parecchio. Penso quindi che i Fratelli musulmani accetteranno questo processo che, effettivamente, è tutto basato quindi su ipotesi ancora da confermare. Però proprio per la loro storia, i Fratelli musulmani procederanno con estrema prudenza. Non escludo che al loro interno ci siano alcuni ambienti che possono coprire o fare da sponda ai terroristi. Però, se guardiamo a quanto è accaduto negli ultimi anni, non solo i Fratelli musulmani ma anche la stessa Gamaa Islamia (un movimento estremista egiziano, Ndr) ha preso le distanze dalla violenza, perché si è resa conto che è controproducente. Magari, se potessero, questi gruppi cercherebbero di dare una spallata. Ma sono loro i primi a rendersi conto che è molto più conveniente seguire una via morbida, accettare delle regole e poi entrare nel sistema. Un po’ come ha fatto Hezbollah in Libano, che pur mantenendo ancora una milizia armata, a un certo punto è entrata nel sistema politico e ne ha accettato le regole.
Abbiamo però visto che anche di recente il terrorismo è stato in grado di colpire in Egitto…
Il terrorismo non è radicato nella società egiziana, ma è proprio nelle situazioni come quella attuale, in cui ci sono delle spaccature nella società, che è più propenso a colpire. È questa la fase in cui bisogna stare più attenti, perché i disordini di questi giorni sono la condizione ottimale per chi mira a destabilizzare il Paese.
La caduta di Mubarak può provocare un peggioramento nella vita dei cristiani?
La situazione dei cristiani in Egitto è difficile non tanto per questo o quel governo, quanto per la loro condizione di minoranza religiosa. Occorre sottolineare che anche nei 30 anni della presidenza di Mubarak non sono mai stati trattati particolarmente bene. Dopo l’attentato alla chiesa di Alessandria, sono stati avanzati dei dubbi sul fatto che il ministero dell’Interno abbia fatto il possibile per evitare quel massacro. Inoltre, sono stati diversi i soprusi della polizia egiziana nei confronti dei cristiani. Quindi ritengo che la vita dei copti, dopo la caduta di Mubarak, non migliorerà né peggiorerà, ma continuerà a essere come è adesso, e cioè una situazione per molti versi non facile.
L’atteggiamento degli Usa ad alcuni osservatori è parso ambiguo. Lei che cosa ne pensa?
Semplicemente gli Stati Uniti stanno cercando di dribblare la situazione, salvaguardando da una parte i principi democratici, e dall’altra evitando il cataclisma. E cioè che un Paese come l’Egitto, importantissimo per la stabilità del Medio Oriente, possa cadere nel caos.
Il vicepresidente Suleiman sarà in grado di garantire la transizione?
Suleiman è un poliziotto, è uno “sbirro” nel vero senso della parola. Tutta la sua carriera si è svolta nei servizi segreti, ma non è un James Bond, quanto piuttosto un custode del regime. Ha il difetto di non essere democratico, ma il pregio di essere pragmatico. E sta cercando di trovare una via d’uscita onorevole per Mubarak, evitando di scaricarlo completamente, cercando nello stesso tempo di portare avanti le proprie ambizioni. Io diffido sempre delle persone che si occupano di sicurezza, e che sono poi prestate alla politica. E soprattutto in Medio Oriente non è mai una cosa buona. Ritengo quindi che ci debba essere una distinzione chiara, netta tra i due ruoli. Perché chi è abituato a usare certi sistemi torna prima o poi a usarli di nuovo, o comunque a ragionare in quei termini. Suleiman è stato soprannominato l’Aggiustatore, è un uomo che sta cercando di traghettare l’Egitto non sappiamo ancora verso quale sponda. Non è certo dalla parte degli studenti, ma sta cercando di salvare nello stesso tempo il Paese e il regime di cui fa parte.
(Pietro Vernizzi)