I vertici Rai hanno vietato ai conduttori dei programmi televisivi di cosiddetto “approfondimento” l’uso di docufiction e del televoto su vicende giudiziarie in corso. Il che, a nostro modesto avviso, non è censura alla libertà di informazione. Anzi.
Pare uno squarcio di cielo azzurro che si apre in un panorama mediatico dominato dal nero. Dal «male raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci perché il negativo non viene pienamente smaltito». E con il bel risultato che «il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono» (Benedetto XVI).
Dalle “vite degli altri” spettacolarizzate – che dalla disgrazia, e dai delitti, e dalle pene altrui, traggono sangue da pompare per l’audience (perciò spiace che Mediaset e La7 non sembra intendano seguire la Rai almeno su questo versante) – al buon vecchio giornalismo fatto di rispetto dell’alterità e di asciutta realtà.
Di questo giornalismo all’antica, teso a far parlare i fatti e non le finzioni rimasticate per via ideologica o sentimentale, si può gustare un reperto nel DVD che da oggi sarà in edicola con Tempi.
Si tratta di un filmato mandato in onda nella Tv del Paraguay e realizzato da uno dei più apprezzati e autorevoli giornalisti latinoamericani: l’ebreo agnostico e razionalista Humberto Rubin. Il video mostra in presa diretta e in una lunga intervista al suo carismatico fondatore, l’Asilo de Dios, opera per malati terminali, bambini e vecchi abbandonati, ragazze madri e ogni sorta di umanità sofferente, creata da don Aldo Trento ad Asuncion, capitale del Paraguay.
Non vi stiamo proponendo un gadget con la banale scusa dello scopo benefico (i proventi dell’iniziativa andranno infatti all’opera di padre Trento). Vi stiamo consigliando un documento che se da una parte ha certamente il suo giusto scopo caritatevole (il finanziamento di un’impresa benemerita), dall’altra ci offre soprattutto una lezione di giornalismo scevro da ogni finzione e artificio.
Rubin non ha fatto altro che portare i microfoni e le telecamere dentro una cittadella del dolore (e, paradossalmente, della gioia), interrogare le persone coinvolte e accolte, commentare in presa diretta, mandare in onda. Non si tratta di un prodotto preconfezionato e, anche se a fin di bene, consolatorio e incensatorio. Ma di un documento di vivo realismo.
Più che una storia è un viaggio. Un’avventura dove l’io narrante prende parte alla vicenda e si fa protagonista di un’esperienza. Il giornalista si lascia interrogare da quello che vede. Commenta, paragona, giudica ciò che vede. Alla fine succede qualcosa per cui il professionista della tv che era andato in “missione” per istruire la collettività alle opere di bene, si trova lui stesso partecipe di un avvenimento che gli impone un cambiamento nella visione di sé, degli altri, delle cose.
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Assenza di artifici, libertà, realismo, sono questi gli ingredienti di un filmato che nelle televisioni europee sarebbe sicuramente incorso nella scure delle autorità per la privacy (che, come sapete per esperienza, peraltro vengono poi puntualmente aggirate). Ma se dalle nostre parti “privacy” spesso non è altro che l’alibi per impedire che allo spettatore non arrivi altro che la bruttezza e la negatività (tutt’al più addolcite da emozioni ed epitaffi sentimentali), in questa storia paraguaiana colpisce come il bene, la pietà, la compassione, la bellezza, emergano dalle immagini della più apparentemente cruda, ingiusta e sconvolgente realtà di sofferenza.
Il che è ancora una volta la riprova, come diceva quel tale di Betlemme, che «non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo».