Il premier greco Antonis Samaras ha ricevuto dal collega turco Recep Tayyip Erdogan l’offerta di costruire a spese della Turchia una moschea per la vasta comunità islamica che vive ad Atene. L’accordo sarebbe giunto durante un incontro avvenuto recentemente a Doha, capitale del Qatar, dove i due capi di governo si trovano per colloqui con le autorità locali. “Ho detto a Samaras che la Turchia può coprire i costi per la realizzazione del luogo di culto a patto che siano concessi i necessari permessi di costruzione e il premier greco ha dimostrato un atteggiamento positivo”, ha dichiarato Erdogan ai cronisti presenti. Secondo prime indiscrezioni, sembra che il progetto per la costruzione della moschea ad Atene sia già stato approvato dal Parlamento ellenico. Abbiamo chiesto un commento a Massimo Introvigne, profondo studioso e conoscitore dei movimenti religiosi.
Come giudica l’accordo tra Grecia e Turchia?
Riguardo questa specifica notizia, credo vi sia da un lato la volontà del governo turco di attuare una sorta di “appeasment” (accordo, ndr) nei confronti della Grecia, con cui rimane comunque aperto il contenzioso di Cipro che al momento frena tutte le iniziative turche di politica internazionale. Dall’altra, invece, si tratta di una politica turca molto frequente soprattutto nei confronti dei Paesi dell’Asia centrale che, da un punto di vista etnico-linguistico, hanno caratteristiche comuni alla Turchia. Una politica che consiste nel diffondere il suo tipo di Islam.
Con quali rischi?
Come ho spiegato anche nel libro La Turchia e l’Europa, non si tratta di un fenomeno necessariamente negativo. La varietà turca dell’islam è infatti in qualche modo meno “aggressiva” dal punto di vista politico-morale rispetto a tante altre varietà, in particolare quella che trova il proprio centro nevralgico nell’Arabia Saudita, molto più rigida e conservatrice.
Quindi l’islam turco preoccupa di meno?
Esatto. Se la moschea che viene costruita in un Paese è finanziata dalla Turchia e non dai sauditi o dall’attuale Egitto, si può immaginare che gli insegnamenti impartiti saranno meno accesi e antioccidentali.
Cosa pensa invece di questi investimenti da parte dei Paesi islamici in Occidente?
Al momento vi è una forte concorrenza tra Paesi islamici per avere una sorta di diritto di primogenitura sulle moschee, tanto che nascono veri e propri network che fanno capo a diversi Paesi.
Questo avviene anche in Italia?
Anche se in piccolo, avviene anche in Italia. Se infatti andassimo a vedere la storia delle organizzazioni islamiche italiane, noteremmo diversi tentativi di influenza da parte del Marocco, dell’Arabia Saudita e, di recente, anche della stessa Turchia.
Come si spiega questo interessamento?
Si tratta di un fenomeno che ovviamente segue l’immigrazione, quindi vi è una maggiore influenza turca in Germania o del Marocco in Italia, ma non è certamente l’unico motivo. A suo tempo, per esempio, Gheddafi non seguiva questo principio e finanziava moschee un po’ ovunque per affermare una sorta di priorità politica.
Quali sono gli altri Paesi protagonisti di questi investimenti?
Un altro attore molto attivo è il Qatar che, pur essendo un piccolo Paese, è una delle grandi potenze economiche mondiali. Ricordo che in passato, in occasione della concessione di un sostanzioso prestito all’Italia, è stata avanzata la richiesta di permettere la costruzione qualche moschea proprio sul nostro territorio.
Che tipo di islam è quello del Qatar?
Per quanto sia molto integrato nei circuiti economici, il tipo di islam diffuso dal Qatar è piuttosto conservatore. Da questo punto di vista si tratta quindi di un attore piuttosto ambiguo.
Quali sono i maggiori rischi in un islam di questo tipo?
Prescindendo dal caso della moschea di Roma, certamente particolare ma tutto sommato positivo, in genere il tipo di insegnamento che proviene dagli imam dell’Arabia Saudita, di scuola wahabita, quindi ultraconservatrice, è quello che poi va a costituire un seme fecondo su cui può fiorire il fondamentalismo. Naturalmente non bisogna generalizzare, però è indubbia l’esistenza di un rischio del genere e non solo quando i finanziamenti provengono dell’Arabia Saudita o dal Qatar.
(Claudio Perlini)