L’aereo militare turco abbattuto dalla contraerea siriana al confine tra Siria e Turchia aveva certamente sconfinato, come infine anche il governo di Ankara ha ammesso. Non di meno il fatto che l’artiglieria contraerea siriana l’abbia immediatamente preso di mira è sintomatico dalla tensione in atto fra i due Paesi. Che però la Turchia non abbia reagito subito ma si sia appellata alla Nato, di cui è uno dei membri principali, per molti aspetti è un buon segno. Significa che tutto sommato il governo turco non vuol far precipitare la situazione. Sin qui la cronaca degli ultimi giorni, che come sempre si spiega soltanto se viene situata in un più ampio orizzonte. In questo caso nell’orizzonte di un Mediterraneo da cui gli Stati Uniti si stanno pian piano ritirando mentre purtroppo né l’evanescente Unione Europea in generale né l’Italia in particolare, più che mai priva di un’adeguata politica estera, fanno qualcosa per riempire il pericoloso vuoto che va così a formarsi.
Ormai da sedici mesi un Paese importante del Vicino Oriente come la Siria è travagliato da una rivolta ora trasformatasi in guerra civile. Un conflitto che, lasciato a se stesso, è senza via d’uscita. Il regime di Assad non ha grande futuro ma conserva tutta la forza militare sufficiente per resistere sine die. Gli alawiti, la grossa minoranza religiosa che ne costituisce la base socio-politica, finché saranno con le spalle al muro e senza scampo resisteranno infatti manu militari sino all’ultimo colpo. Un regime inoltre che, pur non avendo un grande futuro, ha un solido presente potendo contare sull’appoggio della Russia. Stando così le cose, gli Usa, l’Europa e la Turchia stanno facendo ciò che di peggio non si può fare in una situazione del genere: riforniscono di armi e munizioni le bande armate – certo non migliori e anzi spesso peggiori dei reparti governativi – che sono scese in campo contro il regime di Assad. E’ una politica irresponsabile in primo luogo perché quando si mettono in circolazione armi in situazioni del genere né le si possono più ricuperare né si può poi controllare in mano di chi vadano a finire; e in secondo luogo perché in questo modo si indebolisce la componente politica del movimento di opposizione a vantaggio della componente militare o anche più semplicemente banditesca (possibile che nemmeno l’esperienza relativamente recente di ciò che venne innescato in Afghanistan dalle forniture di armi fatte a piene mani da Washington a chiunque promettesse di combattere le forze di occupazione sovietiche non abbia insegnato niente a nessuno?).
Frattanto i governi dell’Unione Europea hanno pensato bene di aggiungere danno a danno comminando alla Siria ulteriori sanzioni. Anche qui un’esperienza che risale all’epoca delle “inique sanzioni” contro l’Italia fascista degli anni ’30 del secolo scorso per arrivare fino a quelle contro l’Iraq di Saddam Hussein dimostra che il conto delle sanzioni viene pagato dai popoli e non dai dittatori che li dominano; e che per di più il loro effetto politico è spesso l’opposto di quello che si pretende, ovvero paradossalmente rafforza il dittatore (come, per fare un esempio che ci riguarda da vicino, accadde in Italia con Mussolini che proprio in tale frangente giunse all’apice della sua popolarità).
E’ chiaro che l’epoca di dittature come quella della famiglia Assad nel Vicino Oriente è finita, e ne siamo tutti lieti, ma è lecito per liberarsene lasciare che un Paese come la Siria finisca in un campo di macerie? Nella storia recente c’è un caso esemplare di transizione non catastrofica da una dittatura alla democrazia: quello del Cile, dove si crearono le condizioni per un’uscita di scena di Pinochet senza per questo sconquassare la società e l’economia cilene. Perché l’Italia non si fa carico, in quanto maggiore potenza del Mediterraneo, di patrocinare in Siria un analogo processo, una volta tanto tirandosi dietro l’Unione Europea invece di esserne al traino? Forse però è troppo, ahimè, pretendere tanto da un governo che non sta nemmeno riuscendo a riportare a casa quei due nostri fanti di marina arrestati e detenuti nel Kerala dopo che un loro comandante del quale non si è avuto sin qui il piacere di conoscere il nome li fece inconsultamente andare a terra in uniforme a consegnarsi come polli alle autorità locali.