La situazione attuale degli Stati Uniti ricorda per più di un aspetto gli ultimi periodi dell’Impero Romano: minacciato da aggressivi nemici esterni, già attivi sul suo stesso territorio, alle prese con alleati sempre più indocili, squassato da conflitti interni e da congiure contro l’imperatore in carica. Un parallelo forse azzardato, date le situazioni storiche molto diverse, ma che può fornire qualche spunto per una riflessione sul presente.
Dopo qualche decennio in cui sembravano poter imporre al mondo la pax americana, per la prima volta gli Stati Uniti si trovano di fronte due potenze decise a giocare un ruolo globale inevitabilmente in concorrenza con Washington: Cina in primis e poi Russia. A queste, si aggiunge una serie di potenze regionali non più disposte a rivestire la parte dei “protetti”, si pensi per esempio all’India e al Giappone, o in Medio Oriente alla Turchia. Con l’attentato alle Torri Gemelle, per la prima volta gli americani sono stati attaccati nel loro territorio e da allora gli attacchi non sono mai cessati. Li si definiscono atti terroristici, ma sono atti di guerra all’interno “dell’Impero” condotti da quegli stessi nemici che gli Stati Uniti stanno combattendo al di fuori del loro territorio.
Inoltre, la fine della Guerra fredda ha reso meno coeso il sistema delle alleanze costruite attorno agli Usa, a partire dalla Nato, messa in discussione dallo stesso attuale presidente americano. Anche i rapporti con l’Europa, compresi i “cugini” inglesi, sono diventati più complessi, così come tensioni sono emerse con tradizionali alleati asiatici, vedasi le Filippine. Significativo il viaggio in questi giorni di Trump in diversi Paesi di questa nevralgica regione, si vedrà con quali risultati.
E’ quindi di per sé naturale che, di fronte a questa nuova situazione di multipolarità, molti Stati stiano riallineando le loro posizioni. Meno naturale è che in questa complicata e pericolosa situazione geopolitica, la politica americana sembri avere come obiettivo principale il proprio presidente.
Il possibile, o probabile, impeachment di Donald Trump non sarebbe il primo nella storia degli Stati Uniti, ma nuove sono le motivazioni, che vanno dall’accusa di avere accettato il sostegno della Russia, e la sua attività di disinformazione, alla più grave accusa di essere addirittura un agente di Mosca, che comporterebbe un catastrofico processo per alto tradimento. Una parte degli oppositori di Trump sta poi seguendo la “via psichiatrica”, con l’obiettivo di arrivare alla sua destituzione per incapacità mentale.
In questa situazione, anche se non ci mettesse del suo e Trump ce ne sta mettendo, qualsiasi presidente sarebbe concretamente e fortemente azzoppato. Ma azzoppata ne esce anche l’immagine degli Stati Uniti, che pretendono di governare il mondo e dimostrano di non riuscire a governare neppure se stessi. L’indignazione per le presunte interferenze moscovite portano molti, perfino negli States, a concludere che chi la fa l’aspetti, visto che per decenni Washington è intervenuta, e non solo con la disinformacija, nelle elezioni di Paesi amici e nemici.
Altrettanto critica la situazione all’interno dei partiti. Trump è aspramente combattuto da buona parte dell’apparato del suo partito, in piena crisi, ma le cose non vanno meglio in casa dei Democratici, dove si sta facendo strada la sensazione che se alle primarie fosse stato scelto il “socialista” Bernie Sanders, quest’ultimo avrebbe forse potuto battere Trump. “The Donald” è stato scelto nelle primarie Repubblicane proprio per il minor peso dell’apparato di partito rispetto ai rappresentanti eletti direttamente dagli elettori. Per converso, è il notevole peso dell’apparato del partito che ha permesso la vittoria di Hillary Clinton nelle primarie democratiche. Vengono così messi sotto esame critico meccanismi elettorali finora considerati adeguati a quella che si considera la più avanzata democrazia nel mondo.
L’assetto democratico è messo in discussione anche dalla sempre più evidente prevalenza nella gestione dello Stato del cosiddetto “Deep State” a scapito dei normali cittadini. Questo blocco di potere va dai già citati apparati di partito, a Wall Street, all’industria, in particolare della guerra, e quindi al Pentagono. La crisi iniziata ufficialmente nel 2008 ha dato il colpo finale al “sogno americano”, già in crisi per suo conto, e il drammatico aumento della diseguaglianza, che aveva dato origine nel 2011 alle proteste dell’Occupy Wall Street, sta sempre più allontanando i cittadini dalla politica. D’altro canto, la gran parte degli eletti non si direbbe appartenere a quel 99 per cento in nome del quale si protestava allora.
Una situazione che sarebbe bene venisse al più presto affrontata in modo ragionevole per il bene di tutti, dentro e fuori gli Stati Uniti, prima che qualcuno, dentro o fuori gli Stati Uniti, pensi che la conclusione migliore sia “muoia Sansone con tutti i Filistei”.