I risultati dell’inchiesta di Al Jazeera sono piombati come un fulmine in Medio Oriente. Le cause della morte di Arafat erano un capitolo rimosso, anche se mai chiuso. Adesso tutti dovranno fare i conti, in qualche modo, con la possibilità che Arafat sia stato ucciso attraverso un materiale radioattivo il Polonio 210. Questo il frutto dell’indagine dei giornalisti di Al Jazeera, sostenuta dal consenso della moglie di Arafat, Suha, e certificata dai risultati dei laboratori dell’Istituto di Radiofisica dell’Università di Losanna. Gli indumenti e gli oggetti personali di Arafat, tra i quali il suo spazzolino da denti, mostrano delle tracce “abnormi” di Polonio 210, ha affermato il direttore dell’Istituto.
Sono state sufficienti poche ore, dall’annuncio dei risultati dell’indagine, per indurre il Presidente dell’Autorità Palestinese, Abu Mazen a dare il via libera alla riesumazione del corpo di Arafat. Come chiesto dalla moglie Suha, per portare a compimento altre analisi, questa volta non solo sugli oggetti ma sul corpo stesso di Arafat. Una scelta opposta, fatta per quieto vivere, avrebbe invece travolto Abu Mazen sotto l’indignazione popolare di complicità con i possibili assassini del Rais.
E si è fatto avanti, non a caso, anche Tawfik Tirawi, un nome oscuro al grande pubblico internazionale. Un personaggio palestinese, ugualmente importante, perché fu capo della Commissione palestinese, che indagò sulle cause della morte di Arafat. Adesso si dichiara pronto a sorvegliare la riesumazione del corpo di Arafat e ricorda che la sua Commissione evidenziò incongruenze nelle cause della morte, ma la sua investigazione, aggiunge, anche a causa dell’occupazione israeliana, non aveva poteri sufficienti. Tirawi mette le mani avanti, per non essere accusato di aver coperto le vere cause della morte di Arafat.
Tuttavia, se fosse confermata l’uccisione di Arafat, una tale notizia non potrà essere gestita dai soli palestinesi. Così si spiega la richiesta di Saeb Erekat, uno dei più stretti collaboratori di Abu Mazen: è necessaria una commissione di indagine internazionale, sul modello di quella che ha indagato sull’uccisione dell’ex premier libanese Rafiq Al-Hariri. Il Libano, con le sue forze, mai avrebbe potuto indagare e mettere sotto processo esponenti dei potenti servizi segreti siriani. Altrettanto, fa capire Erekat, i palestinesi non hanno la forza per cercare nei servizi segreti israeliani, il mandante della morte di Arafat.
Interessante allora ascoltare cosa dicono ora i protagonisti israeliani negli anni 2003-04.
Avi Dichter, Direttore nel 2004 dello Shin Bet, il servizio segreto interno israeliano, nega ogni suo coinvolgimento in un’operazione per uccidere Arafat. Dice questo, rispondendo alle domande della Radio militare israeliana, che ha bussato alla sua porta dopo le rivelazioni di Al Jazeera. Dichter, non si ferma qui, e ricorda come Arafat avesse molti nemici “domestici”, alludendo probabilmente a personaggi palestinesi, e “stranieri”.
Silvan Shalom, nel 2004, ministro degli esteri israeliano, alza il tono e afferma che è scandalosa e falsa l’idea che il suo paese sia coinvolto nella morte di Arafat.
Gli anni dal 2002 al 2004 sono, in ogni caso, gli anni più terribili della Seconda Intifada. Anni nei quali le azioni terroristiche palestinesi, non solo quelle di Hamas, colpiscono duramente Israele. Sono gli anni dell’assedio dell’esercito israeliano ad Arafat, chiuso nella suo quartier generale di Ramallah. Quando nel settembre del 2003 un atto terroristico provoca la morte di 15 israeliani, dal Gabinetto di sicurezza israeliano esce la decisione di “rimuovere” Arafat, che gli israeliani considerano un “terrorista”, ma non vengono spiegate quali debbano essere le modalità di quella rimozione. Un giornale israeliano dell’epoca riferisce che Dichter crede che sia meglio la sua morte al suo esilio. Nulla di più, ma anche nulla di meno.