“I leader degli Stati del G20 non rimangano inerti di fronte ai drammi che vive già da troppo tempo la cara popolazione siriana e che rischiano di portare nuove sofferenze ad una regione tanto provata e bisognosa di pace”. Lo scrive il Papa Francesco in una lettera al presidente russo, Vladimir Putin, nella quale aggiunge: “Troppi interessi di parte hanno prevalso da quando è iniziato il conflitto siriano, impedendo di trovare una soluzione che evitasse l’inutile massacro a cui stiamo assistendo”. Per Vincenzo Buonomo, professore di Diritto internazionale alla Pontificia Università Lateranense e consulente del Pontificio Consiglio Iustitia et Pax, “il Papa comprende che anche se un’opzione militare dovesse avere successo, non sarà sufficiente a dare una risposta ai veri problemi della Siria. Il processo di peace building passa necessariamente attraverso la fase negoziale”.
Professor Buonomo, come si spiega questa iniziativa in prima persona di Papa Francesco?
Nella lettera del Papa sono compresi quattro aspetti: un profilo socio-economico; il tema di fame, assistenza sanitaria e cure mediche; il rapporto pace/conflitto, legato a sua volta alla questione dello sviluppo; l’obbligo umanitario. A me ha colpito in modo particolare l’ultimo punto, perché c’è una rilettura di un termine ormai ripetuto in lungo e in largo nelle relazioni internazionali. Il Papa lo utilizza in modo specifico parlando di un obbligo degli Stati e dei governi a intervenire per l’assistenza umanitaria. Il riferimento non è soltanto ai 2 milioni di rifugiati fuoriusciti dal Paese, ma anche al fatto che si contano 3 milioni di sfollati interni, cioè di persone che hanno lasciato il loro villaggio per essere in qualche modo protette da una delle parti in conflitto.
Il fatto che il Papa sia intervenuto in prima persona significa che la situazione sta precipitando?
Il Papa ha la percezione di qual è la vera situazione come nessun altro. Il vantaggio diplomatico della Santa Sede consiste nel fatto di non conoscere soltanto le situazioni dal punto di vista geopolitico, ma anche dal punto di vista della popolazione. La presenza della Chiesa cattolica e di un rappresentante pontificio in loco consente di avere informazioni di prima mano.
Che cosa può vedere il Papa che è sfuggito ai grandi della terra?
Il Papa richiama alla necessità di rispettare le regole internazionali, per evitare di intervenire producendo conseguenze dannose per il Paese siriano, attraverso un’occupazione dall’esterno o il prevalere di interessi di altri Stati. Il Santo Padre inoltre percepisce l’importanza del fatto che su 23 milioni di siriani, il 10% non è musulmano. Pone quindi l’accento sulla questione delle comunità cristiane o di altre minoranze religiose presenti nell’area.
Qual è la vera natura dello scenario che si è creato in Siria?
Dal marzo 2011, quando è iniziata la rivolta contro Assad, non pensavamo che si arrivasse a un conflitto nel corso del quale sono stati utilizzati tutti i mezzi vietati dalle regole internazionali. Di recente ci si è concentrati sull’indagine per scoprire se siano o meno stati utilizzati dei gas, ma nessuno si è interrogato su quali tipi di armi siano state utilizzate da ambedue le parti durante l’ultimo anno e mezzo.
A che cosa si riferisce esattamente?
Mi riferisco alla questione delle bombe cluster, proibite dalla convenzione di Oslo del 2011, e che sono state utilizzate nella prima fase del conflitto. Se i dati forniti dai tecnici sono esatti, ciò significa che c’è stata una violazione completa delle regole utilizzate o applicabili ai conflitti. Il limite dell’armamento chimico è essenziale, perché il rischio di genocidio può essere effettivo, ma non dimentichiamo che esistono anche altri tipi di armi non convenzionali come appunto le cluster bomb.
Nel momento in cui Assad sta prevalendo militarmente sui ribelli, sono davvero possibili dei colloqui di pace come auspicato dal Papa?
L’unica soluzione consiste nel mettere le parti attorno a un tavolo. Se l’aspetto militare prevale sulla riflessione o sul cosiddetto negoziato politico, è facile prevedere quali possono essere le conseguenze. Qualunque delle parti vinca militarmente il conflitto non risolverà la situazione, in quanto il Paese resterà destabilizzato e ingovernabile. Il processo di peace building passa necessariamente dalla fase negoziale, lo scontro armato sul terreno non risolve nulla anche se una delle due parti prevale.
(Pietro Vernizzi)