La campagna elettorale negli Stati Uniti ha ormai assunto toni che potrebbero anche essere divertenti, se in gioco non ci fosse l’elezione del presidente della maggiore potenza mondiale. La scena è tenuta senza dubbio dal repubblicano Donald Trump, il miliardario estraneo agli apparati di partito, che sembra avere come scopo principale di stupire avversari e, pure, sostenitori. Molti commentatori si chiedono se la sua sia una precisa e ben studiata strategia o se si è solo in presenza di un “carattere” molto speciale: in altri termini, se ci è o se ci fa. C’è persino chi pensa che sia tutta una manfrina per far vincere la Clinton, vista anche la forte opposizione che Trump trova all’interno del suo stesso partito. I democratici lo accusano di essere un cinico populista, di voler instaurare un regime autoritario e addirittura di essere un agente del Cremlino, il che non è male per un candidato alla Casa Bianca.
Il polverone sollevato da Trump rischia di far passare in secondo piano i gravissimi problemi che stanno emergendo nel campo avversario e che pongono interrogativi pesanti sul candidato democratico, Hillary Clinton. Il partito in quanto tale ha fatto un’imbarazzante figuraccia con le rivelazioni che hanno portato alle dimissioni di Debbie Wasserman Schultz, presidente del Democratic National Committee, il comitato che governa il partito. Il sito del Comitato è stato violato da hacker, a quanto pare russi, e dalle migliaia di mail trafugate e passate a Wikileaks è risultato un complotto del vertice del partito contro Bernie Sanders, lo sfidante di Hillary Clinton alle primarie.
Che la Clinton avesse un ampio supporto all’interno dell’apparato di partito rispetto al “socialista” Sanders era cosa ben nota, ma che l’apparato lo boicottasse in tal modo ha suscitato pesanti reazioni tra i sostenitori del senatore del Vermont e sconcerto tra gli iscritti. Tutto ciò si aggiunge all’ormai famosa questione delle mail del Dipartimento di Stato gestite da un server casalingo insieme alla propria posta privata, una decisione alla quale la Clinton pare non riuscire a dare una spiegazione soddisfacente. Il rapporto conclusivo dell’Fbi sulla vicenda ha escluso l’esistenza di fatti tali da giustificare un rinvio a giudizio, ma ha definito “estremamente negligente” il comportamento dell’ex segretario di Stato, una definizione che non sembra la più adatta a un candidato alla presidenza.
Un ulteriore cono d’ombra è gettato dagli intrecci tra le donazioni alla Clinton Foundation e gli incarichi di governo della coppia Bill e Hillary, così come dalle loro numerose e remunerative conferenze. Inoltre, rischia di riaprirsi il cosiddetto “caso Bengasi”, cioè la ventilata responsabilità del Dipartimento di Stato guidato dalla Clinton per l’attacco terrorista che nel 2012 provocò la morte dell’ambasciatore americano John Christopher Stevens e altri tre americani. I genitori di due degli uccisi hanno citato in giudizio Hillary Clinton accusandola di aver facilitato l’attacco dei terroristi con la sua “avventata” gestione di dati riservati, accusa ovviamente respinta dall’interessata.
Anche nel caso di Bengasi, la commissione di inchiesta della Camera dei Rappresentanti voluta dai repubblicani, pur criticando l’amministrazione Obama per come aveva gestito la sicurezza dell’ambasciatore, non sollevò imputazioni alla Clinton. Ora Wikileaks ha dichiarato di essere in possesso di mail che dimostrano come la Clinton fosse al corrente di un traffico di armi dalla Libia verso i ribelli siriani, cosa negata sotto giuramento da Hillary di fronte al Congresso. Immediato l’attacco dei repubblicani che, per voce del senatore Rand Paul, prospettano l’accusa di spergiuro nel caso fosse accertata la veridicità delle mail.
Barack Obama ha definito Hillary Clinton il candidato alla presidenza degli Stati Uniti più qualificato della storia e Donald Trump, invece, un pericolo per lo stesso sistema di governo statunitense. Secondo sondaggi recenti, i due terzi degli americani ritengono Hillary poco attendibile ed affidabile, lo stesso giudizio dato su Trump. Rimane forte l’impressione che per molti americani le prossime presidenziali saranno, più che una scelta politica, un problema di coscienza.