Il missionario italiano Padre Amelio Troietto si è trovato letteralmente nell’occhio di uno dei numerosi cicloni che spazzano di tanto in tanto l’Oceano Pacifico provocando distruzione e morte. Da dieci anni il chirurgo e sacerdote camilliano si trova nella provincia di Leyte, una delle due zone più duramente colpite dal ciclone Haiyan. Da pochi giorni in Italia per una breve vacanza, padre Amelio Troietto lavora nel Policlinico di Dolores ed è in costante contatto con le Filippine, nonostante molte città sono rimaste isolate in quanto il ciclone ha abbattuto le torri delle comunicazioni di telefoni cellulari e Internet. Il presidente della Repubblica, Benigno Aquino, ha dichiarato lo stato di calamità naturale nella speranza di accelerare i soccorsi alle popolazioni colpite. In una dichiarazione ha fatto sapere che le due province messe più a dura prova, Leyte e Samar, hanno sofferto pesanti distruzioni e la perdita di numerose vite umane. La BBC ha reso noto che si teme che oltre 10mila persone siano morte per effetto del ciclone.
Padre Troietto, quali sono le notizie che giungono dalla città di Dolores?
Dolores si trova nella parte orientale dell’isola di Samar, nella provincia di Leyte, una delle due più colpite dal tifone Haiyan. Nella zona sono stati distrutti tutti i ponti-radio dei cellulari e in questo momento, mentre le parlo, persiste da alcuni giorni il black-out elettrico totale. Sto attendendo con un’ansia al di là di ogni immaginazione di avere notizie minuto per minuto. A Calbayog, alla stessa latitudine di Dolores ma nella parte Ovest dell’isola di Samar, i danni non sono stati di grave entità. Le capanne sono state colpite, ma la torre delle comunicazioni è rimasta in piedi.
Lei è riuscito a parlare con chi si trova sull’isola?
Sì, ho parlato con madre Flora, la superiora dell’ordine delle suore francescane dei Sacri Cuori di Gesù e Maria, alcune delle quali lavorano sia a Manila sia a Dolores, e dal cui ordine dipende il Policlinico nel quale lavoro. Secondo madre Flora le capanne e le altre costruzioni non in muratura sono state spazzate via, ma tutto sommato gli edifici in muratura hanno retto abbastanza bene. La situazione insomma non sarebbe così grave come nel resto della provincia di Leyte, dove il ciclone ha lasciato solamente distruzione e morte. Gli edifici in cui vivono le suore di Dolores sono per fortuna rimasti in piedi.
Lei prima ha detto che a Dolores è in corso un black-out elettrico. Il Policlinico nel quale lavora continua a essere comunque in funzione?
Nel Policlinico è presente un generatore di corrente che funziona a diesel, anche se il mio timore è che le scorte di gasolio vadano esaurite da un momento all’altro. Non avere il generatore significa non avere acqua potabile, e quindi non potere nemmeno poter fare un bagno ai malati.
La provincia di Leyte è in ginocchio. Com’era la situazione prima del ciclone?
Il presidente delle Filippine si vanta della crescita del Pil pari al 7,8%, ma nell’isola di Samar a crescere sono soltanto il costo di riso, zucchero e petrolio. Per la gente comune quindi la crescita non equivale a maggior benessere. Lei si è già trovato all’interno di diversi cicloni. Può descrivere che cosa accade in situazioni come questa? Il vento spezzetta le foglie, solleva la terra e penetra da ogni fessura. Quattro anni fa, mentre stavo costruendo una scuola per bambini poveri a Dolores, è arrivato il ciclone quando mancavano porte e finestre. Il vento si è insaccato e ha portato via le lamiere al tetto come se fossero fogli di carta.
Qual è stato il ciclone più forte che abbia vissuto di persona?
Alcuni anni prima, per un mese intero, ogni domenica c’è stato un tifone dall’eccezionale potenza distruttiva. In aperta campagna, dove era coltivato il riso, c’era una fila di dodici piloni dei cavi dell’alta tensione che sono crollati uno dietro l’altro. Tutte le insegne pubblicitarie sono state abbattute, e in pronto soccorso sono arrivati 73 feriti nell’arco di 25 minuti. Il forte vento del ciclone sbriciola i vetri e gli altri oggetti infrangibili, e le persone arrivano a farsi medicare quasi sempre con ferite sulle mani e sulle braccia perché cercano di ripararsi testa, spalle e collo dalle schegge.
C’è qualcosa che non dimenticherà mai di quel ciclone?
Nel corso del secondo dei quattro tifoni nell’arco di un mese, una notte ho sentito un boato pauroso. All’epoca l’ospedale si trovava su una piccola collina che dava sull’oceano, contro cui il vento picchiava con forza incredibile. Dalla cima della collina dovevo fare la guardia durante tutta la notte per evitare che la porta del generatore fosse divelta e l’ospedale rimanesse senza corrente. Il vento mi buttava la sabbia sul volto, colpendola come dei pallini di un fucile da caccia.
A quel punto che cosa è successo?
Verso mezzanotte un mio confratello italiano, don Giovanni Petrin, mi ordina: “Vieni fuori”. “Ma sei matto?”, gli rispondo esterrefatto. Lui apre la porta d’ingresso dell’ospedale e insiste perché esca anch’io insieme a lui. Sono uscito e con mia grande meraviglia mi sono trovato di fronte a un silenzio irreale: eravamo nell’occhio del ciclone. “Guarda verso l’alto”, aggiunge a quel punto don Petrin. Rovesciando la testa sulle spalle ho visto il cielo stellato nel cerchio azzurro sopra di me, l’occhio del ciclone appunto. Dopo meno di un minuto, il vento ha ripreso a volteggiare sempre più velocemente, finché sono dovuto rientrare per evitare di essere trascinato via.
(Pietro Vernizzi)