“Spallata di Macron all’Italia”, “La Francia ci ruba la Libia”. Sono questi alcuni dei titoli apparsi pochi giorni fa su alcune testate italiane dopo l’annuncio del vertice del 25 luglio scorso, convocato in maniera del tutto unilaterale a Parigi dal neo-presidente francese, tra i due “nemici libici”, Fayez al Serraj, premier del governo di accordo nazionale voluto dall’Onu, e il generale Khalifa Haftar, uomo forte dell’est libico che si sta allargando, in armi, in molte zone del paese. Potremo perderci in critiche, del tutto plausibili e condivisibili, sull’atteggiamento del giovane presidente. Proprio lui che aveva fatto innamorare una parte dell’opinione pubblica italiana per l’ostentato spirito europeista. Eppure, più che biasimare Macron, forse dovremmo fare un esame di coscienza e guardare dentro al cortile di casa. La Francia, al di là delle belle parole sullo spirito dell’Unione fa il proprio interesse nazionale utilizzando la vecchia cara politica di potenza. Noi non del tutto.
E non è cosa nuova. Guardando al solo quadrante mediterraneo, strategico per i francesi, gli esempi della grandeur d’oltralpe iniziano almeno nel 1830 con la conquista di Algeri, abbandonata a fatica dopo una sanguinosa guerra terminata solo nel 1962, con più di un milione tra morti e dispersi. Nel 1881 la Terza repubblica impose il suo protettorato sulla Tunisia, obiettivo dei propositi coloniali italiani. L’allora primo ministro Benedetto Cairoli fu costretto a dimettersi. La stampa parlò di “schiaffo di Tunisi”. Fu allora che i francesi ci dissero “prendetevi la Libia” che all’epoca pareva poco più di uno scatolone di sabbia. Fu poi la volta degli accordi di Sikes-Pikot con cui Parigi, in pieno accordo con Londra, decise di spartirsi il Medio Oriente e imporre il proprio mandato su Libano e Siria.
E arriviamo, dunque, al 2011 quando Sarkozy, per mettere le mani sulle riserve della Jamahiriya (non solo petrolio ma anche oro e uranio che abbondano in alcune zone interne), sfruttando un distratto Obama decide di coscrivere gli “alleati europei” in un’azione militare senza né capo né coda per defenestrare Gheddafi. Noi italiani da allora abbiamo messo un punto e ricominciato da zero, con un lavoro certosino, riallacciando i rapporti con le autorità di Tripoli e con le varie milizie che controllano il territorio grazie anche all’esperienza sul campo di Eni e abbiamo riaperto l’ambasciata a Tripoli, diventando, così, l’unico punto di contatto occidentale in Libia.
Lavoro sprecato? Ai più potrebbe sembrare così, ma a ben guardare forse possiamo ancora ambire a un qualche ruolo nel paese. Come? Prendendo innanzitutto atto del fatto che dietro alla spregiudicatezza di Macron si cela una scarsa conoscenza della realtà libica che noi, giocoforza, abbiamo maturato. Facciamo solo un esempio. Pochi giorni fa l’inquilino dell’Eliseo, forte dell’intesa, più di facciata che di contenuto, tra Serraj e Haftar raggiunta a Parigi, si è avventurato nella proposta di aprire hotspot in Libia per gestire il controllo dei migranti, convinto di poter ottenere da Tripoli e Tobruk il via libera a una missione militare a marchio francese in territorio libico. Qualcuno ha però spiegato al presidente che non basta far stringere la mano ai due (ex?) nemici per entrare con gli stivali sul terreno in Libia. Ci sono milizie, fazioni e, più in generale, attori che non si riconoscono in nessuno dei due leader. Con alcuni di questi il ministro dell’interno Marco Minniti tenta di dialogare da tempo, e un motivo ci dovrà pur essere.
E allora, per rispondere alla domanda da cui eravamo partiti: possiamo ancora avere un ruolo in Libia senza essere fagocitati dall’attivismo francese e senza cedere ai ricatti d’oltralpe, come quello di nazionalizzare i cantieri Stx di Saint-Nazaire per far sfumare l’affare di Fincantieri, o rifiutare una concreta collaborazione sui flussi di migranti che si riversano sulle nostre coste. Per farlo, però, al di là della nostra esperienza diplomatica, e senza cadere nell’emulazione dell’aggressiva realpolitk francese (che peraltro non possiamo permetterci) dovremmo per lo meno: avere un sistema paese unito; un progetto politico condiviso per la Libia e per il Mediterraneo e una politica estera di lungo periodo che non sia solo di risposta alle singole minacce o problemi (vedi migrazioni).
Saremo capaci di farlo? Difficile dirlo ma da questo dipenderà il futuro della nostra politica estera per (e oltre) la Libia.