Comunque si voglia interpretare l’articolato accordo sul programma nucleare iraniano, scaturito dal tavolo negoziale di Vienna dello scorso martedì, non c’è dubbio che si tratti di un evento di portata storica e non solo per i contenuti dell’intesa — in base alla quale, in breve, le sanzioni imposte da Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite saranno eliminate a partire dal 2016 in cambio di un freno ai programmi nucleari di Teheran — ma anche e soprattutto per le conseguenze che questa potrebbe avere nel frammentato e labile sistema degli equilibri regionali in Medio Oriente.
Basta scorrere velocemente le dichiarazioni a caldo dei leader dei paesi più o meno direttamente coinvolti per capire che questo accordo è destinato a stravolgere la mappa del potere e delle alleanze nello scacchiere regionale e, in più ampia prospettiva, nell’intero sistema internazionale. Se per Federica Mogherini ora il mondo è “più sicuro” e per Vladimir Putin possiamo tirare “un sospiro di sollievo”, per il premier israeliano Netanyahu, invece, il mondo “è molto più pericoloso”. Insomma, appare evidente come la partita di Vienna abbia segnato una netta linea tra vincitori e vinti.
Da qui è necessario partire per comprendere le possibili conseguenze che l’accordo potrebbe avere nel complesso prisma degli attori che compongono lo scenario mediorientale post primavere arabe. Uno scenario, giova ricordarlo, estremamente instabile e frammentato su cui è bene soffermarsi prima di valutare le possibili opzioni future. Stiamo assistendo, infatti, ad un processo di ristrutturazione della mappa del Medio Oriente che è sotto gli occhi di tutti. La Siria, paese in cui la minoranza alawita ha regnato a lungo reprimendo la maggioranza sunnita, è impantanata in una guerra civile; la Libia, dopo 42 anni di potere indiscusso del suo “leader maximo”, è ora una terra di nessuno, divisa in una miriade di tribù, due governi e la costante presenza delle milizie affiliate al califfato; l’Iraq, dove sunniti, sciiti e curdi hanno convissuto sotto il giogo della dittatura di Saddam Hussein, è un paese smembrato, teatro di scontri tra i boia dell’Is — e altre milizie sunnite — e gruppi sciiti, in cui la debolezza delle strutture statali centrali ha contribuito a rendere la situazione totalmente fuori controllo. L’Egitto, storico paese pivot dell’area, è quasi sull’orlo di una guerra civile interna.
In questa situazione a dir poco “fluida”, in cui la comunità internazionale è sembrata, per lo meno fin qui, brancolare nel buio, si è presumibilmente avvertita la necessità di un “nuovo” attore regionale forte, capace di porsi come un chiaro interlocutore per l’occidente specie su alcuni scacchieri particolarmente critici, come quello siriano, ma soprattutto in Iraq, roccaforte delle principali organizzazioni terroristiche e hub di addestramento ed esportazione dei combattenti dello stato islamico.
In questo contesto, forse proprio l’Iran — baluardo sciita in Medio Oriente — potrebbe esser sembrato alle potenze occidentali la chiave di volta per tentare di arginare il fondamentalismo sunnita del califfato e degli altri gruppi jihadisti e ristabilire almeno un barlume di governabilità nell’area.
Da qui, dunque, questo storico “rovesciamento di prospettiva” in cui lo Stato canaglia per eccellenza — il simbolo dell’asse del Male — assume nuovamente a pieno titolo il suo ruolo di grande potenza regionale e torna nel novero degli attori legittimi e riconosciuti dalla comunità internazionale.
Si tratta di un disgelo nei rapporti con l’occidente che inevitabilmente è destinato a ridisegnare gli equilibri di potere regionali, con buona pace degli altri player dell’area che, da questa partita, come si è detto, escono più o meno sconfitti.
Ad iniziare dall’Arabia Saudita, indiscusso leader della galassia sunnita, e fin qui alleato degli Stati Uniti, che non hai mai celato di temere l’ascesa dell’Iran e il rafforzamento della mezzaluna sciita; prospettiva decisamente peggiore, per Riyad, dell’affermazione dello stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. E’ questa una delle ragioni che ha spinto la potenza saudita, seguita da altre monarchie del Golfo, a sostenere i ribelli — e gli jihadisti — disposti a rovesciare il regime alawita di Assad. Strategia che, inutile negarlo, ha agevolato l’ascesa dello stato islamico nella regione. Non è facile dire ora quali potrebbero essere le reazioni saudite ma, senza necessariamente voler preconizzare la tanto temuta corsa agli armamenti, è plausibile prevedere una politica maggiormente svincolata dall’asse con Washington e più propensa a nuove alleanze all’interno degli equilibri regionali che via via si struttureranno nell’area.
Da questo punto di vista, volendo partire dall’assunto, se vogliamo del minimo comun denominatore, che “il nemico del mio nemico è mio amico”, la potenza saudita potrebbe trovare ottimi alleati, a partire da Israele, il vero grande sconfitto di questa partita che, probabilmente, tra le proprie opzioni strategiche ha ben valutato anche quella di rafforzare la coesione con i paesi sunniti, dando vita a un blocco anti-Iran.
Meno chiaro potrebbe essere invece il ruolo di altri importanti attori, ad iniziare dall’Egitto, che sin dalla rivoluzione khomeinista ha guardato all’Iran degli Ayatollah con grande sospetto. Un atteggiamento generalmente ostile che si è palesato anche nel suo rifiuto per il programma nucleare iraniano. Ora, se è vero che, al momento, da parte egiziana ha prevalso un certo pragmatismo — tanto che il ministro del Esteri ha commentato l’accordo come una speranza per il disarmo nella regione — nulla garantisce che le posizioni egiziane restino le stesse, vista anche la fluidità interna al Paese e il ruolo che la Fratellanza, seppure indebolita, continua ad esercitare in Egitto e negli Stati vicini.
Infine, una nota a parte merita la Turchia, che ha visto crescere esponenzialmente gli interessi economici verso l’Iran nell’ultimo decennio, specie da quando si è eclissata la prospettiva di entrare nell’Unione Europea. Se da un lato Erdogan spera che il nuovo accordo possa sbloccare gli investimenti e favorire il commercio tra i due paesi, dall’altro non nasconde il proprio disappunto nei confronti delle politica iraniana nello Yemen e soprattutto in Siria.
Il premier turco in questo momento appare piuttosto “distratto” e impegnato nel tentare di riaffermare la propria leadership interna dopo il parziale fallimento delle elezioni legislative e a contrastare un ulteriore rafforzamento dei curdi che hanno rappresentato il più forte baluardo contro l’espansionismo dell’Is. In ogni caso, nulla vieta che l’affiatamento con Teheran sia destinato a cadere proprio “sulla via di Damasco” e dunque sulle divergenze dei due paesi sulla questione siriana. La Turchia potrebbe essere disposta a sacrificare l’interesse economico sull’altare dell’atavica opposizione alla causa curda e ciò potrebbe portare a una pericolosa rottura con l’Iran.
Ci sarebbero molti altri scenari da ipotizzare, ma tanto basta per far luce sulla forza dirompente che questo accordo è destinato ad esercitare nella regione. Anche se l’Iran non arriverà ad un’alleanza generalizzata con l’occidente, è innegabile che su alcuni fronti ci sarà una sempre più stretta collaborazione, come nella lotta contro l’Is e sarà questa, con tutta probabilità, lo spartiacque dei nuovi equilibri e delle nuove alleanze in Medio Oriente.