In circostanze come quelle delle elezioni di sabato scorso in Libia la stampa internazionale tende sempre a sopravvalutare le prospettive delle forze politiche più gradite all’Occidente nonché le condizioni e gli esiti del voto nelle grandi città. Perciò le notizie che giungono mentre scriviamo, che danno in testa i cosiddetti “liberali” di Jibril, vanno prese più che mai con le pinze. È vero però che, diversamente dall’Egitto, in Libia il grosso degli abitanti vive in 3-4 città, e questo potrebbe avere il suo peso. Poi però resta da vedere se il principio “una persona, un voto”, tipico della moderna democrazia occidentale, abbia comunque senso in un Paese come la Libia, ma di questo diremo più avanti.
Sabato scorso i libici recatisi alle urne – circa il 66 per cento dei quasi 2,8 milioni di cittadini aventi diritto al voto – erano chiamati a scegliere i 200 membri di un’assemblea, detta Congresso Generale Nazionale – che entro 30 giorni dal suo insediamento dovrà nominare il nuovo governo. Seguirà poi l’elezione di un’Assemblea Costituente e infine l’anno venturo quella di un nuovo Parlamento. In precedenza invece avevano già avuto luogo le elezioni degli enti di governo locale.
In sé si tratta di un percorso ben pensato, ma poi come dicevamo è da verificare se sia realistico nel concreto della situazione della Libia: un Paese (come peraltro molti altri nel mondo) dove i territori nonché le comunità umane, etniche, etno-religiose o etno-sociali che siano, contano tanto quanto le singole persone. Quindi da sola una maggioranza aritmetica non basta, ma anzi può diventare il detonatore di un conflitto. Nel caso della Libia, che nei suoi attuali confini è un prodotto del colonialismo italiano, ci si trova a fare i conti con tre aree segnate da profondi confini storici, la Tripolitania a ovest, la Cirenaica a est e un’ampia porzione del deserto del Sahara a sud. In particolare il problema numero uno è che il potere e il grosso della popolazione sono in Tripolitania mentre la quasi totalità dei ricchi giacimenti petroliferi è in Cirenaica. E come se non bastasse la Tripolitania è il punto di forza dei “laici” o “liberali”, nei limiti del significato che termini del genere possono avere nel mondo arabo musulmano, mentre la Cirenaica è il punto di forza in Libia dell’integralismo islamico, e non a caso la terra d’origine di personaggi di rilievo di Al Qaeda. La rivolta contro Gheddafi, che era “laico” e della Tripolitania, partì dalla Cirenaica; e le milizie irregolari incautamente armate sotto banco dall’Occidente continuano ad avere le armi in mano e sono decise a ricavarne un dividendo politico di marca chiaramente non democratica. Tutto ciò considerato, quale che ne sia l’esito, guardare ai risultati di queste elezioni con occhi occidentali rischia di condurre a grossi errori di prospettiva.
Dallo scoppio della rivolta che condusse alla caduta e all’assassinio di Gheddafi e poi ai mesi che seguirono, più che dal governo del tempo l’interesse nazionale immediato del nostro Paese − ovvero la tutela dei contratti di fornitura del gas libico − venne garantito dall’Eni. Nella prospettiva cruciale di uno sviluppo del nostro interscambio con l’Africa (cfr. “Depressione fiscale”, Il Sussidiario, 30 giugno 2012), non c’è solo tuttavia tale interesse immediato. C’è anche ben altro, tanto più considerando che la Libia è la porta di itinerari trans-sahariani verso l’Africa Nera e un Paese ricco di risorse finanziarie in cerca di proficui investimenti. Perciò c’è da augurarsi che l’attuale governo ne tenga adeguato conto.
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