Per non compromettere il buon esito del Salone dell’Orologeria, di importanza ovviamente cruciale per l’economia elvetica, i colloqui per la pace in Siria che vanno sotto il nome di “Ginevra 2” sono iniziati ieri non nella sede dell’Onu a Ginevra bensì nel centro congressi di un albergo della non lontana Montreux.
La seduta inaugurale, aperta alla stampa, non ha dato adito a grandi speranze per il futuro di questi negoziati, che da domani continueranno a Ginevra a porte chiuse. Prima ancora che si aprissero, sulla loro sorte ha pesato un’assurda pretesa, tuttavia non priva di precedenti in quest’epoca di crisi – fra le altre cose – anche della diplomazia. La pretesa cioè di escludere a priori dalla trattativa alcune delle parti in causa, ovvero pretendere di aprire loro la porta ma solo a condizione che si impegnino a uscire poi dalla scena.
Lunedì scorso il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, sotto la cui égida i colloqui hanno luogo, vi aveva invitato anche l’Iran, ma il giorno dopo si è rimangiato l’invito su pressione degli Stati Uniti che si sono opposti sia a nome proprio, sia tramite la Coalizione nazionale siriana, ossia il fronte di opposizione al regime di Assad sostenuto da Washington.
La soluzione di una crisi va trattata con tutte le parti in causa, con tutti quelli che di fatto tengono il campo e non solo con i più belli e i più buoni (o presunti tali). Piaccia o non piaccia l’Iran ha un ruolo tutt’altro che secondario nella vicenda; lasciarlo fuori quindi non ha giustificazione alcuna. Se si comincia a pretendere che qualcuno che è sul campo non sia anche al tavolo dei negoziati ciò significa che non si mira alla pace ma a qualcos’altro. Poi magari non si arriva alla pace anche avendo messo attorno al tavolo tutti quanti; lasciando però fuori qualcuno non ci si arriva di sicuro. Diciamo perciò che c’è qualcosa di quanto meno paradossale nel fatto che alla conferenza partecipano circa trenta Paesi e altri soggetti di diritto internazionale, ma non l’Iran. C’è quasi tutta l’Europa occidentale, Italia compresa, tutti o quasi i Paesi arabi, ovviamente gli Stati Uniti e la Russia, ma poi anche l’Australia, il Sudafrica, l’India, l’Indonesia, la Corea del Sud e così via, ma non l’Iran.
Dall’altro lato come si fa a porre l’impegno a uscire dalla scena quale condizione preliminare a una delle parti in causa, in questo caso il regime di Assad? Chi mai accetterebbe di trattare a questo prezzo? Non lo accetterebbe neanche uno che avesse l’acqua alla gola, non foss’altro che per vendere cara la pelle; e tanto meno può accettarlo uno che, come Assad, sta resistendo con successo all’attacco di milizie talvolta straniere e sempre finanziate dall’estero, che, in quanto a rispetto dei civili e delle loro proprietà, non sono meglio, anzi spesso sono peggio, delle sue truppe.
Peraltro per un verso il regime di Assad non poteva fare a meno di esserci, e per l’altro non ci si poteva permettere di lasciarlo fuori. Perciò sin dalla sessione inaugurale dei negoziati il ministro degli Esteri siriano è entrato nella trattativa attaccando Ban Ki-moon e respingendo a priori tale condizione. Poi magari durante i colloqui a porte chiuse che inizieranno domani a Ginevra si arriverà imprevedibilmente a qualcosa di positivo. Siamo però appunto nel campo dell’imprevedibile.
La situazione è aggrovigliata oltre ogni dire, ma in fin dei conti il bandolo della matassa è in mano alle potenze che finanziano il conflitto: dalla parte di Assad la Russia e l’Iran, e da quella dell’insurrezione gli Stati Uniti, ohimè l’Unione Europea e alcuni Paesi arabi. E’ innanzitutto a questo livello che la trattativa deve cominciare, e il nostro governo potrebbe, se volesse, fare qualcosa.