Continua la testimonianza di Fiammetta Cappellini, cooperante Avsi ad Haiti. La difficoltà di gestire l’emergenza rimane grande, come quella di ritrovare le persone. Prevale una sensazione generale di impotenza. E i bambini sono sempre i più colpiti. «Le adozioni? Meglio tendere ad aiutarli qui».
18 gennaio 2010, Port au Prince, Haiti
Scrivo di sera, intanto che posso usare internet. Ormai ho l’ossessione della linea, quando il segnetto verde di Skype diventa grigio si ripiomba nell’isolamento.
Stasera dormiremo in casa. A Les Cayes, al sud del paese, nella zona rurale, già ieri hanno dormito in casa. I nostri due colleghi di Avsi ospitano altre cinque persone. Anche là, dove non è successo nulla di grave, si stanno allestendo campi sfollati, sono confluiti feriti negli ospedali, e la Minustah (United Nations stabilization mission in Haiti, presente dal 2004, ndr) si sta attrezzando per stoccare merce che forse arriverà via mare. Si sta decentrando la crisi.
Oggi a Cité Soleil, una città nella città di Port au Prince, abbiamo raccolto i primi dati sui bambini di cui ci siamo occupati fino al terremoto di martedì scorso.
Ne seguiamo (o seguivamo?) diverse centinaia, personalmente, uno a uno, da vari anni. Li aiutavamo, con il sostegno a distanza, ad andare a scuola, avere le cose più necessarie (materasso per dormire, scarpe, divisa per la scuola, cibo), fare esperienze di ordine e di bellezza. Ci ha sempre sostenuto in questo la convinzione che una vita povera dev’essere anche degna. Un bambino senza scarpe non può andare a scuola. Si vergogna, è considerato indegno.
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Siamo andati a cercarli e a vedere le loro famiglie. Su un centinaio, oltre 60 hanno perso la casa o ce l’hanno gravemente danneggiata. Ma quando riesci a trovarli, che gioia grande! Quando non conosci la sorte di qualcuno, com’è bello ritrovarsi, o sentirsi dire di un bambino che sì, c’è, ma è andato dalla zia, che ha la casa ancora in piedi.
Ho bussato a molte porte per avere il necessario per i nostri campi. Qualcosa abbiamo avuto, acqua, salviette, generi di questo tipo, ma cibo no. Il cibo va accompagnato dalla Minustah. La sicurezza lo impone. Però le situazioni di violenza, che pur ci sono, mi paiono non essere così generalizzate. Certo, pare tutto appeso a un filo, un filo che per ora tiene.
L’atmosfera di Port au Prince è surreale. Da una parte le giornate sono scandite dalla presenza delle personalità mondiali più potenti, che determinano traffico, blocco delle attività, affollarsi dei media, delle forze di sicurezza. Dall’altra ti guardi intorno e pensi all’impotenza totale dell’uomo. Anche il Segretario generale dell’Onu era cosi impotente di fronte alle macerie.
Ho sentito che in Italia è cresciuto il dibattito sull’adozione temporanea di questi bambini. Ma qui già prima c’erano moltissimi abbandoni. Ora bisogna pensarci bene, se dopo il trauma del terremoto, magari con la perdita di uno o di entrambi i genitori, vale la pena trapiantarli. Bisogna pensare che ogni caso è diverso, che i bambini non sono funghi, hanno relazioni, rapporti, e reciderli può essere fatale. Meglio tendere ad aiutarli qui.
A proposito di aiuto, mi è sembrata interessante la proposta del segretario generale di Avsi di destinare da parte dell’Italia metà del montepremi del gioco del lotto ad Haiti. Non risolve ma educa. E ne abbiamo tutti bisogno.
Fiammetta