Le violenze tra manifestanti copti e forze dell’ordine che il 9 ottobre scorso al Cairo hanno causato, secondo fonti ufficiali, più di 30 morti, sono le più gravi dalle rivolte anti-Mubarak dello scorso febbraio e destano una serie di preoccupazioni sul futuro del Paese che, tra qualche inevitabile incertezza, sembrava comunque avviarsi alle elezioni del 28 novembre in un clima di grande fermento. Questi scontri hanno sicuramente un peso molto più rilevante ora di quanto non sarebbe stato prima degli storici eventi di piazza Tahrir che, in qualche modo, sembravano aver dato un colpo di spugna al passato e alle sue divisioni religiose e sociali, con un ottimistico sguardo al futuro, soprattutto per i rapporti tra cristiani e musulmani, ma anche tra la popolazione e l’esercito. Ciò non è sufficiente per dire che tutto è tornato come prima, ma è certo che gli equilibri sociali e religiosi, raggiunti nei giorni dell’entusiasmo nelle piazze, sembrano quantomeno in discussione.
Insomma, ci sono delle fratture evidenti da ricomporre prima di pensare a ricostruire un governo stabile nel Paese con delle nuove elezioni, per evitare che queste tensioni si riflettano, poi, anche negli assetti post-elettorali. A confermare questo timore, le dichiarazioni del primo ministro egiziano, Essam Sharaf: “quegli eventi ci hanno riportato indietro invece di andare avanti per costruire uno Stato moderno su delle sane basi democratiche […] e rischiano di causare una delle più grandi fratture dell’Egitto post-Mubarak che potrebbero riflettersi sul futuro del Paese, mettendo a rischio una unità nazionale già traballante”. Non ci sarebbe nulla di più pericoloso che giocare con la questione dell’unità, ma è proprio questo che si potrebbe prospettare, perché, è evidente, i drammatici fatti del 9 ottobre hanno riaperto due profonde crepe nel Paese, quella tra cristiani e musulmani e quella tra esercito e una parte della popolazione, i cui effetti potrebbero minarne gli equilibri futuri.
In realtà gli episodi di violenza tra i copti, che rappresentano circa il 10 per cento della popolazione egiziana, i musulmani e le forze dell’ordine non sono mai mancati in Egitto: basti ricordare, tra quelli più recenti, i 21 morti della notte tra il 31 dicembre 2010 e il primo gennaio 2011 ad Alessandria d’Egitto e i 15 morti negli scontri tra copti e salafiti il 7 maggio 2011 al Cairo, e la lista sarebbe ancora lunga. La primavera araba, però, con la sua “onda nuova” sembrava aver illusoriamente spazzato via anche questa divisione, radicata nelle fondamenta dell’Egitto, come anche in quelle di molti altri paesi dell’area, Siria e Libano in primis.
Eppure, durante le manifestazioni di piazza Tahrir tutto sembrava filare liscio; anzi, come in quel non troppo lontano “febbraio libanese” quando cristiani e musulmani marciavano insieme nella Piazza dei Martiri al grido di “Siria fuori”, anche qui si gridava a gran voce che la rivolta “non è musulmana e appartiene ugualmente ai musulmani e ai cristiani, agli uomini ed alle donne”. Giovani musulmani stringevano la mano a giovani cristiani, mentre sfilavano con una croce in una mano e un Corano nell’altra, in un nuovo clima di coesione religiosa. Chissà se anche in Egitto la magia è destinata a svanire in breve tempo, così come è accaduto nel Paese dei cedri.
Nelle violenze di venti giorni fa sembra esserci, secondo molti, un disegno più ampio: esse sarebbero state in qualche modo “telecomandate” dall’esercito, attore importante, seppur sopito, dell’Egitto di Mubarak, apparentemente vicino ai manifestanti durante le rivolte, che però, ora, sembra voler tornare ad avere un ruolo di primo piano nel futuro del Paese. Sono molti gli osservatori egiziani che vedono nei recenti disordini un chiaro tentativo dell’esercito di impossessarsi di nuovo del potere. I militari, individuando come responsabili dei disordini non “i manifestanti”, bensì “i copti”, hanno fornito un capro espiatorio ben definito contro cui fomentare il risentimento di tutti coloro che, stanchi delle rivolte e delle violenze, si stanno impegnando nella fattiva ricostruzione sociale e politica del Paese. L’equazione a questo punto è semplice: un Paese diviso e insicuro ha paura e un Paese che ha paura ha bisogno di un esercito forte e, se necessario, violento.
C’è da chiedersi, però, con un ruolo dei militari così concepito, quale sarà il modello di Stato che nascerà dopo le elezioni. Volendo fare dei paragoni, per quanto spesso azzardati, il rischio è quello di riproporre un sistema in cui i militari costituiscono una vera e propria autorità al potere, un’autorità superiore a quella popolare e quindi inattaccabile e incontestabile, un sistema, se vogliamo, simile a quello algerino e distante anni luce dal tanto agognato “modello turco”, con uno Stato a guida civile nel quale il ruolo dell’esercito è limitato a quello di garante e protettore della stabilità.
A ciò si aggiunga che i manifestanti difficilmente lasceranno che la svolta raggiunta, o quantomeno intrapresa, nei giorni di piazza Tharir si areni contro il rinvigorito potere dell’esercito e continueranno a combattere in maniera ancora più intensa, con il rischio di un’escalation di violenze senza precedenti.