In Yemen i palazzi del potere sono sotto assedio. E’ la quarta volta in meno di tre anni che lo scontro tra fazioni assume una rilevanza sistemica nel Paese. Allo scoppio delle primavere arabe un fragile accordo di unità nazionale aveva portato al potere una leadership sunnita, molto vicina all’Arabia Saudita e il cui obiettivo doveva essere la condivisione del potere – alla libanese – con la folta minoranza sciita. L’accordo non ha retto e non soltanto per le fragilità del sistema yemenita. Il Paese è infatti travolto dall’acuirsi di crisi interne e esterne che sono ormai giunte ad una pericolosa convergenza. Lo Yemen è da anni uno dei principali campi di addestramento della galassia terroristica legata ad al-Qaeda. Lì è stato ucciso da un drone americano l’imam al Awlaki, cittadino Usa rifugiatosi nella penisola arabica per ispirare e guidare alcuni degli attentati più spettacolari messi a segno nel mondo dalla rete qaedista. I fratelli Kouachi, autori del blitz nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, avevano ricevuto soldi e addestramenti in Yemen, dove l’ennesima autobomba, proprio nelle ore in cui si consumava la tragedia in Francia, provocava più di 30 morti nel centro della capitale Sana’a.
I santuari del terrorismi yemenita sono anche la sponda geopolitica privilegiata degli Shabaab e dei pirati somali, che dall’altra parte del Golfo di Aden trovano la cassaforte principale per il riciclaggio dei proventi dei sequestri delle navi mercantili di passaggio.
Ma, ancor di più, lo Yemen è forse tra le più rilevanti pedine di quella epocale guerra per procura che è in corso oggi nel mondo arabo – islamico. E’ ormai chiaro come quelle che sbrigativamente sono state definite “primavere arabe” siano in realtà un gigantesco regolamento di conti tra le due principali interpretazioni dell’Islam e i due rispettivi campioni nazionali. Arabia Saudita e Iran sono impegnati a promuovere la loro influenza su un Medio Oriente che sta conoscendo una impressionante scomposizione geografica, politica, culturale e sociale. Ciascuno dei Paesi che decenni fa sono stati creati dal nulla con un tratto di matita sono il terreno di scontro ideale per affermare una supremazia strategica.
Così possiamo leggere tutte le rivolte in corso in Libia, in Siria, in Iraq, in Bahrein e nello Yemen per l’appunto. In quella che una volta era l’Arabia Felix hanno prevalso fino ad oggi i gruppi sunniti prevalentemente legati e finanziati dall’Arabia Saudita. Nelle maglie larghe di un controllo statale quasi assente si sono poi infiltrate cellule di addestramento legate ad al Qaeda e al suo nucleo fondante conosciuto come AQAP (Al Qaeda in the Arabian Peninsula). Oggi però la situazione viene ribaltata dall’ennesima controffensiva delle milizie sciite sostenute dall’Iran, il cui obiettivo è quello di riportare verso quel campo la preminenza strategica. Una pedina in più, quindi, per il fronte sciita in questa sanguinosa e lunga guerra per procura. Fino almeno alla prossima controffensiva dei gruppi sunniti, che non resteranno certo a guardare.
In questo scenario di vuoto e di fragilità possono quindi prosperare i gruppi satelliti legati al terrorismo. E’ esattamente ciò che è accaduto al confine tra Siria e Iraq, dove la combinazione tra scomposizione geografica dei confini, lotta per la supremazia tra sunniti e sciiti, vuoto lasciato dal presidio delle truppe americane ha potuto mettere radici un movimento terroristico che si è addirittura – almeno questa è la sua ambizione – fatto Stato. Quando si parla quindi di ricette o di rimedi contro il Califfato e la violenza occorre innanzitutto analizzare i fenomeni nella loro portata più autentica: non una lotta di quartiere tribale, ma un cambiamento geopolitico enorme negli assetti regionali e globali.