La crisi che sta surriscaldando la già complicata situazione mediorientale sembra, forse, avviarsi a una soluzione, anche se è ancora difficile stabilire quali saranno le caratteristiche. La crisi è iniziata il 4 novembre con le improvvise dimissioni del premier libanese Saad Hariri, irritualmente date attraverso una televisione saudita da Riyadh. Hariri ha motivato la decisione con il timore di un attentato alla sua vita e ha accusato l’Iran, sostenuto dagli sciiti di Hezbollah, di interferire nelle vicende interne del Libano. Suo padre Rafiq fu ucciso nel 2005 in un attentato attribuito a membri di Hezbollah su istigazione del regime siriano. Questioni di sicurezza personale sarebbero anche alla base della sua permanenza da allora a Riyadh con tutta la famiglia, facendo sorgere il sospetto di un suo sequestro da parte saudita, come ha denunciato lo stesso presidente libanese, Michel Aoun. E’ da tenere presente che Hariri ha doppia cittadinanza, libanese e saudita e importanti interessi economici in Arabia Saudita.
Camille Eid, nella sua intervista su queste pagine, ha evidenziato il rischio che l’aggressività della nuova leadership saudita porti a uno scontro diretto tra Riyadh e Teheran, che potrebbe estendersi a Stati Uniti e Russia, con conseguenze disastrose. Prova della gravità della situazione è l’immediato intervento della Francia, in passato potenza coloniale in Libano e Siria, con una visita lampo di Emmanuel Macron al principe ereditario Mohammed bin Salman, uomo forte del regime. Macron ha poi ricevuto a Parigi il ministro degli Esteri libanese che, in un’intervista a Le Monde, ha ringraziato la Francia per la sua opera di mediazione. Il ministro ha anche rigettato decisamente le accuse saudite che hanno definito un atto di guerra del Libano il lancio di un missile verso Riyadh da parte dei ribelli yemeniti. Un’accusa azzardata che serve solo a giustificare un attacco al Libano se Beirut non aderisse alle richieste saudite. Intanto, il governo saudita ha chiesto ai propri cittadini di lasciare il Libano e ha richiamato il proprio ambasciatore a Berlino, dopo che il ministro degli Esteri tedesco aveva appoggiato l’ipotesi del sequestro del premier libanese.
Macron aveva, inoltre, invitato Hariri e la sua famiglia a Parigi, un invito che è sembrato un’offerta di asilo politico, lettura che Macron si è affrettato a smentire. Hariri ha accettato l’invito ed è arrivato sabato a Parigi per incontrare il presidente francese, per poi proseguire, a quanto sembra, per diverse capitali arabe prima di rientrare a Beirut. Peraltro, sarebbe sembrato più logico un rientro immediato in Libano, come richiesto dal presidente libanese. Aoun non ha infatti accettato le dimissioni, in assenza di un confronto diretto con lui e un corretto dibattito al Parlamento libanese. Tuttavia, è proprio in questo percorso inusuale che si può trovare una soluzione, coinvolgendo altri Stati arabi, sarà significativo vedere quali, e avendo la Francia come intermediario.
La situazione interna libanese rimane però del tutto incerta e la posizione personale di Saad Hariri indebolita da quella che appare un’eccessiva dipendenza dagli interessi sauditi, anche tra i sunniti libanesi che vedono nell’Arabia Saudita un protettore di fronte alla strapotenza di Hezbollah. Sotto questo aspetto è anche interessante la visita, il 14 novembre, del patriarca maronita libanese a Riyadh, la prima nella storia, in cui ha incontrato il re e il principe ereditario. Il cardinale Bechara Rai ha definito questi incontri molto positivi e, da parte saudita, si è perfino fatto l’elogio della tolleranza religiosa e della convivenza pacifica delle diverse religioni. Un’affermazione straordinaria per i capi di uno dei regimi più intolleranti in questo campo. Il cardinale ha incontrato anche Hariri, dichiarando di condividere le motivazioni delle dimissioni.
Da tutto questo traspare come Hezbollah, partito sciita ma anche potente milizia armata, rappresenti un problema per una parte della popolazione libanese, sunniti, drusi e cristiani. Ma la stabilità attuale del Libano è consentita proprio da un governo di unità nazionale che comprende tutte queste componenti e Hezbollah. Una stabilità messa a repentaglio dalle dimissioni di Hariri e dalle interferenze saudite, che si aggiungono a quelle iraniane. Tanto più che l’anno prossimo si dovrebbero tenere le elezioni generali.
Nella memoria del popolo libanese pesa drammaticamente il ricordo della guerra civile che ha insanguinato il Paese dal 1975 al 1990, così come delle invasioni straniere, quelle israeliane nel 1977, 1982 e 2006, e la lunga occupazione siriana iniziata nel 1976 e terminata nel 2005, con la cosiddetta “rivoluzione dei cedri” dopo l’assassinio di Rafiq Hariri. La stabilità del Paese è messa anche a rischio dalla presenza, su una popolazione di circa quattro milioni, di più di un milione di profughi siriani, che vanno ad aggiungersi alle centinaia di migliaia di profughi palestinesi, dopo 70 anni ancora considerati tali anche dall’Onu.
Data la posizione sulla questione di Donald Trump, vi è poca speranza in un intervento ragionevole degli Stati Uniti, e di conseguenza della Russia. Sarebbe il caso che, insieme alla Francia, si muovesse tutta l’Europa per salvare quella che un tempo era definita “la Svizzera del Medio Oriente”.