L’America si sta mobilitando. Inviando uomini, risorse, corpi militari e cibo. Lo sta facendo per davvero. Perché gli americani non perdonerebbero al presidente una gestione superficiale della tragedia. Considerano gli haitiani come i cittadini americani più poveri. E non sopporterebbero una seconda Katrina, quando cioè non vennero prese le misure più opportune per attenuare le conseguenze di un disastro. Maurizio Molinari, corrispondente a New York del quotidiano La Stampa, è stato il primo giornalista italiano ad approdare sull’isola squassata dal sisma. Racconta a ilsussidiario.net il suo impatto con la devastazione e le sue impressioni.
Che percezione hanno avuto gli americani del terremoto?
È stato percepito come una Katrina internazionale. Ora si aspettano dal presidente che non ripeta gli errori compiuti da Bush nelle risposte a Katrina. E che, dunque, mobiliti l’America per un aiuto massiccio. Gli americani vogliono che il loro Paese non lesini sforzi e che guidi la Comunità internazionale in un’operazione di aiuto a favore di un Paese che è il più povero dell’emisfero occidentale.
Che legame hanno gli Usa con Haiti?
Un legame profondo, come con tutte le isole caraibiche. Gli haitiani sono considerati i più poveri e sfortunati dei cittadini americani. L’americano medio, che non ha in genere una cultura internazionale molto sofisticata, sa che Haiti è stato il primo Paese delle Americhe a diventare indipendente. Ma sa anche che il Paese che vanta questo primato è anche quello che ha subito le maggiori catastrofi. Anche in termini di guerre civili, povertà e sfruttamento. Nell’immaginario collettivo degli americani, l’idea che gli haitiani siano i più disperati, emarginati e bisognosi di aiuto è profondamente radicata.
Anche prima del terremoto il legame era così forte?
Certo, è ben precedente al terremoto. Non è un caso che subito dopo l’operazione Iraqi Freedom del 2003, la prima operazione che vide l’America alleata con la Francia – che si era opposta all’invasione dell’Iraq – fu l’invio dei Caschi blu ad Haiti per porre fine alla guerra civile. A questo sentimento contribuisce l’approccio dei dominicani. Molto più presenti negli Usa rispetto agli haitiani. Ma con un atteggiamento nei loro confronti paterno. Anche se loro sono i “ fratelli ricchi” dell’isola di Hispaniola, sono soliti, per esempio, prendere gli orfani haitiani nelle loro case.
L’America si sta muovendo in maniera adeguata?
Sta facendo quello che non ha mai fatto. Mandare nell’arco di una settimana 12 mila uomini, navi, aerei, ogni genere di corpo militare, i migliori specialisti per la riapertura dell’aeroporto e tonnellate di aiuti, rappresenta sicuramente un’operazione di dimensioni umanitarie senza precedenti. Quando c’era stato lo tsunami erano stati promessi aiuti, ma la lontananza li aveva ostacolati. Ora l’amministrazione sta gestendo la tragedia proprio come gli americani si aspettano che sia gestita.
E non come Katrina…
Per loro il parallelismo con l’uragano è molto sentito. Katrina è il ricordo dell’America che soccorre male e in ritardo i più poveri tra gli afro-americani degli Stati Uniti del sud. Ed Haiti è il paese più povero dell’America del Sud.
Finita l’emergenza, gli Usa accompagneranno Haiti verso la realizzazione di uno stato moderno?
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Questo non possiamo saperlo. Sappiamo che Hillary Clinton si è impegnata in questo senso. Essendo stato lì, ho la percezione che i tempi della ricostruzione saranno molto, molto lunghi. Perché non c’è nulla. Non ci sono case, non ci sono ponti, piazze, manca la distribuzione dell’acqua. Al momento gli Stati Uniti sembrano intenzionati ad accettare un compito di lungo termine. Bisognerà vedere se avranno le risorse per farlo. Di sicuro sono intenzionati a realizzare qualcosa di imponente.
Ad esempio?
Dare luce verde alla Croce Rossa internazionale per portare in Florida 45 mila haitiani. Un esodo biblico. Già 2 mila sono a Orlando. Anche qui c’è una similitudine con Katrina. I profughi di Katrina vennero mandati negli stati confinanti, in Texas e in Alabama, e adesso la Florida tenta di fare la stessa cosa.
Perché gli Stati Uniti non sono mai riusciti, o non hanno mai voluto seriamente impegnarsi nel condurre Haiti ad una condizione di normalità?
Perché nella scala delle priorità Haiti non è mai stata in cima alle preoccupazioni dell’amministrazione. Anche quando la guerra civile è stata più feroce, l’America ha delegato alle Nazioni Unite. C’è stata una sottovalutazione che ha accomunato gli Usa agli altri Paesi. E che riguarda l’approccio degli americani con le regioni dell’America Latina.
Bush e Clinton sono stati inviati in missione da Obama. servirà a qualcosa?
Credo si tratti di un messaggio legato alla comunicazione di Obama verso l’America. Il presidente vuole dare agli americani la sensazione che gli Usa siano uniti di fronte all’emergenza. Che l’America sia talmente grande e la tragedia li riguardi così da vicino che sia necessario far sparire le differenze tra liberal e conservatori, tra Democratici e Repubblicani. È la stessa cosa che fece Bush figlio dopo lo tsunami, quando mandò Bush padre e Clinton.
Lei è stato tra i primi giornalisti a recarsi ad Haiti. Ci racconti il suo viaggio in quel luogo devastato.
Sono atterrato attorno alle tre e mezza di mercoledì 13, a meno di 24 ore dal terremoto. Sulla pista c’erano un Boeing della Islander, due aerei della Guardia nazionale americana, un Charter dell’American Eagle – che aveva portato degli aiuti umanitari – e un altro della Miami Air. Al di là di questo, l’aeroporto era completamente desolato, non c’erano comunicazioni, non c’era niente. Con gli altri colleghi americani e francesi con i quali sono arrivato, ci siamo fermati sulla pista, senza saper cosa fare. Abbiamo tentato di uscire, ma non ci è stato possibile.
Perché?
L’aeroporto era assediato, la gente disperata premeva sui vetri. Siamo rimasti sula pista dalle 3 alle 6, nel black-out assoluto. Era crollato l’intero sistema di comunicazione. Con un collega del Miami Herald ci chiedevamo cosa fare. Intanto, due poliziotti cercavano di tener chiuse le porte esterne. Ad un certo punto abbiamo incontrato un haitiano che – non so come – era in possesso di una macchina. Siamo saliti con lui e abbiamo cercato di uscire. Ci ha portato alla base dell’Onu, a cinque minuti di strada, dove ci siamo rifugiati. Lì abbiamo avuto il primo impatto con la tragedia.
Cos’ha visto?
Centinaia e centinaia di feriti, sistemati in due gigantesche tendopoli. Siamo stati con loro fino a mezzanotte, ascoltando i loro racconti. Mentre i caschi blu continuavano a portare feriti. Attraverso il racconto dei superstiti ho avuto il primo contatto con la devastazione. Il giorno dopo, all’alba, sono uscito per vedere cos’era rimasto. Ho preso un moto-taxi, il mezzo con il quale ci si sposta ad Haiti. Mi ha portato nella zona commerciale della città, nel centro, la zona più colpita; non era rimasto niente. Un mare di macerie, mucchi di cadaveri che non avevo mai visto.
Tutte le cronache infatti hanno parlato di uno scenario apocalittico…
Ho fatto la guerra in Somalia, nei Balcani, morti ne ho visti. Ma mai così tanti, accatastati gli uni sugli altri, in maniera casuale. La zona più disastrata è quella del cuore della città, che si articola attorno alla Route one, i ministeri e il palazzo presidenziale. Tutti crollati. Del palazzo presidenziale è crollata non solo la scalinata – quella che si vede nelle foto – ma anche la parte dietro. Non c’è letteralmente più nulla. Lì, per la prima volta, ho visto le bande col machete. Ragazzi molto, molto giovani che ruotavano la loro arma sulla testa per proteggere gli sciacalli.
Da cosa è rimasto più impressionato?
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Le cose che più mi hanno impressionato sono tre: i cadaveri. Un conto è parlarne, un altro vedere persone inermi in posizioni geometriche differenti in mezzo alla strada. Con la gente che cammina attorno come se non fosse niente. La seconda è la dimensione della devastazione e delle macerie. E’ stato come vedere Dresda bombardata. La terza è stata l’assenza totale dello stato. Non c’era polizia, militari o Caschi blu. Pure questi erano sotto choc.
Anche i Caschi blu?
Certo. Tutta la loro missione è stata decapitata. L’Hotel Cristal, la sede dell’alto comando delle Nazioni Unite, è crollato con dentro centinaia di persone. Chi gli dava gli ordini? Hanno avuto bisogno di un po’ di tempo per capire chi decideva cosa. Nel frattempo, andavo in giro col mio moto taxi pensando “sotto quella pietra, quel mattone, ci sono chissà quante persone vive”. Ma nessuno li cercava.
Ora qualcosa è cambiato?
La svolta c’è stata tra giovedì e venerdì. Quando sono arrivati i primi veri aiuti internazionali. I primi ad arrivare sono stati gli americani, gli spagnoli e i francesi. Hanno portato un po’ di speranza. I primi giorni abbiamo mangiato biscotti sotto conserva, gallette delle razioni militari, fornite dalle truppe giordane, egiziane e dello Sri Lanka, e bevuto acqua purificata. Non c’era cibo, niente. Giovedì sono arrivati i primi generi alimentari, e l’acqua minerale. Lentamente sono state riallacciate le prime comunicazioni, i Caschi blu hanno cominciato a uscire dalle basi e sono arrivate le prime squadre di soccorso, che si sono messe a scavare e ad aiutare la gente.
Quali sono adesso i primi passi da compiere in un’ottica internazionale?
Il primo passo è la riqualificazione della missione Onu. Al momento è presente una missione di peace keeping, che non ha più senso mantenere, perché era stata mandata per porre fine alla guerra civile del 2003-2004. Occorre mandare nuovo personale, esperto in questioni umanitarie, anche di gestione; ricostituire un nuovo alto commissariato che abbia questa caratteristica; le truppe militari dell’Onu non devono esser truppe combattenti ma abili a portare aiuti ai civili, come in Somalia. Attorno a questo bisogna aumentare il coordinamento tra i contingenti coinvolti. E’ chiaro che gli americani sono più “ingombranti”. Hanno più strumenti, più soldati e mezzi. Ma la loro visibilità si deve anche alla debolezza della struttura dell’Onu.
Cosa può fare l’Italia?
Moltissimo. Noi, ad esempio, abbiamo l’esperienza delle operazioni di soccorso nei Balcani e l’esperienza umanitaria in Somalia. O gli ospedali da campo che tutti ci invidiano. Purtroppo, in questa missione Onu non c’eravamo. Siamo tornati di corsa, con gente molto esperta – certo -, abbiamo mandato il primo ospedale, ma dobbiamo fare di più. Credo, infine, che l’Onu dovrebbe prendere Haiti, dividerlo in settori e affidarne ciascuno a un diverso Paese. Con il compito di portare aiuto ai civili. Perché la ricostruzione, adesso, è lontana. L’urgenza è quella di dare acqua e cibo alla gente. E un tetto. Migliaia di persone stanno vivendo all’addiaccio, in tende organizzate alla benemeglio.