«Non cercano la pace né la coesistenza perché ognuno ha un progetto ideologico al quale non vuole rinunciare». Sono severe le parole di padre Samir Khalil Samir, professore nell’università St. Joseph di Beirut e tra i massimi esperti del mondo islamico, a proposito di israeliani e palestinesi. «Da una parte un gruppo fondamentalista, dall’altra un governo che dice di essere democratico. Ma che essendo il più forte, dovrebbe fare i primi passi». La manifestazione anti israeliana e la preghiera islamica davanti al Duomo di Milano sono l’occasione per affrontare con padre Samir i problemi della convivenza e del dialogo. Terra Santa compresa.
In Italia, a Milano, ha suscitato polemica che in piazza Duomo ad una manifestazione anti israeliana abbia fatto seguito la preghiera di centinaia di musulmani proprio in quel luogo, un luogo simbolo del cattolicesimo. C’è chi ha detto che la preghiera è tale dovunque e comunque essa avvenga; chi invece dice che, fermo restando il suo significato, non ne può essere trascurato il significato politico… Che ne pensa?
Il contesto di quel sabato pomeriggio mostra che lo scopo era fare un atto politico. La preghiera è venuta al termine di una manifestazione dedicata alla situazione di Gaza, dove si sono anche bruciate bandiere israeliane. Se si fosse voluto fare un gesto religioso, sarebbe stato molto più semplice, e più bello, invitare tutti quelli che volevano pregare per la pace a venire in un luogo scelto, come una chiesa, una moschea, o un luogo più neutrale. Sarebbe stato un momento in cui ognuno – cristiani, ebrei, musulmani – avrebbe potuto pregare a modo suo.
Lei esclude quindi una valenza religiosa…
Il fatto che simultaneamente, se ho capito bene, a Bologna davanti a San Petronio e a Milano in piazza Duomo sabato pomeriggio scorso sia avvenuta la stessa cosa, fa capire che c’è stata una programmazione. Questo vuol dire che c’è stato un progetto politico e che allora questo gesto di preghiera va letto politicamente. I musulmani devono capire che mescolare il politico e il religioso, non è una cosa buona e accettabile in Europa.
Dopotutto la manifestazione si è conclusa con un gesto di preghiera. Non contano solo la buona intenzione, l’interiorità e il primato della coscienza?
Nessuno dirà che la preghiera è un gesto negativo, però ha le sue condizioni: di solito ha un suo luogo – se no perché si chiama luogo di culto?, che può essere una moschea per i musulmani, o una chiesa per i cristiani. Poi c’è un problema di contenuto. La preghiera non può essere contro qualcuno, almeno nella nostra sensibilità moderna. A mio avviso non è bene concludere con una preghiera un’azione dimostrativa come una manifestazione politica. D’altra parte sono sicuro che i musulmani non volevano fare qualcosa che fosse contro la Chiesa.
Ma allora perché hanno scelto proprio il duomo?
Per la visibilità. Rientra nel modo di pensare dell’islam, tipicamente improntato a categorie politiche: come a dire «vedete? Ci siamo, siamo presenti, e visibili». Questo esprime più un atto politico che un atto religioso. Per noi cristiani è l’opposto, come dice il Vangelo: “tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto”. Ma l’islam ha un altro atteggiamento. Ho letto che l’appello alla preghiera è stato fatto col megafono, con la tipica esortazione “Allahu àkbar”, Dio è il più grande. Non c’è bisogno di farlo, se si è tutti convenuti apposta; se lo si fa è per farlo sentire agli altri. Sono convinto che non c’è niente in questo contro i cristiani, ma i musulmani devono imparare che in Occidente la dimensione religiosa deve rimanere discreta.
Si ripete continuamente che la strada maestra per la convivenza pacifica è il dialogo. Qual è la sua opinione?
Il dialogo ha come primo scopo quello di togliere le ambiguità. Per questo, nel vero dialogo, bisogna dirsi anche dove non si è d’accordo. Il vero dialogo deve mirare ad uno scambio che faccia capire ad ognuno la posizione dell’altro. Per esempio tra Gaza e Israele il dialogo imporrebbe di parlarsi, per risolvere le divergenze in modo pacifico e non con le bombe. Il dialogo è una tappa verso una pace profonda, anzi se possibile verso l’amicizia. Ma deve essere il più sincero possibile.
Lei è un cattolico di cultura araba. Esiste una contraddizione tra la fede e la cultura che ispirano i suoi valori e la sua sensibilità?
Il cristianesimo è una religione, ma come ogni religione ha un impatto profondo sulla cultura. La dimensione cattolica della mia personalità determina degli atteggiamenti culturali: per esempio cerco il più possibile la pace, ma senza rinunciare alla giustizia. La pace ha un valore quasi assoluto – dico “quasi” perché il primo valore è la vita e la dignità della persona, la sua incolumità – mentre i miei amici e fratelli musulmani non metteranno forse l’accento sulla pace. E cerco la giustizia, perché senza giustizia non si arriva alla pace. Non avverto alcuna contraddizione tra l’essere arabo e l’essere cristiano. Del resto l’arabismo non comincia con l’islam, perché abbiamo cristiani arabi fin dal giorno della Pentecoste.
La Terra Santa appare alla disperata ricerca di giustizia e di pace. Dove trovarla? Ci sono degli esempi di convivenza possibile?
Sono favorevole a una solidarietà con tutti i popoli della regione, cominciando da quelli che condividono la mia cultura. Ma non la solidarietà nell’errore e nell’ingiustizia. Il Libano, per esempio, è ancora oggi in grado di offrire una lezione alla convivenza tra religioni diverse. L’altro ieri però nel suo discorso Nasrallah (leader di Hezbollah, ndr.) ha detto: noi abbiamo per vocazione di difendere la terra dell’islam e la Palestina come parte di questa terra. Ma questo è sbagliato.
Perché?
Perché dire che dev’essere Hezbollah a difendere la Palestina? La Palestina è un altro paese, il primo compito è difendere la pace e la giustizia. Se voglio realmente la pace devo cercare di avvicinare i due contendenti, i palestinesi e gli israeliani, ma posso servire solo come intermediario. Sarkozy e Mubarak hanno cercato di fare da mediatori tra Gaza e Israele: questo è l’atteggiamento giusto, non quello di entrare in campo con l’uno o con l’altro.
Come mai ha citato il modello libanese?
Perché c’è un’intesa implicita che fa rispettare, anche a livello costituzionale, gli altri gruppi. Il parlamento comprende 128 parlamentari, 64 cristiani e 64 musulmani. I cristiani comprendono cattolici e ortodossi, i musulmani annoverano sciiti, sunniti e drusi. Ma benché la proporzione della popolazione stia cambiando, perché sappiamo che i cristiani non sono più il 50 per cento, tutti sono d’accordo di mantenere il 50 per cento della rappresentanza, proprio per creare uno Stato equilibrato. Gli armeni festeggiano il Natale il 6 gennaio ed è stato dato loro un giorno di festa. Per mantenere l’equilibrio, hanno dato un giorno in più festivo anche ai musulmani. È un equilibrio che, malgrado 15 anni di guerra civile, è stato mantenuto.
Che cosa serve per imboccare la via della pace?
Io dico sempre ai miei fratelli palestinesi: è vero che siete vittima di un’ingiustizia, perché non avete fatto nulla contro gli ebrei prima del 1948 per meritare di essere spogliati della vostra terra. Ma la realtà è che oggi siamo a più di 60 anni da questo fatto. Dovete vivere insieme per poter vivere meglio. Allora cercate di capire che anche l’israeliano, quello che sta nella parte di Israele legittima, non è stato nemmeno lui a privarvi della terra, perché è nato lì. È la sua terra come la vostra. Dovete prima vivere insieme per poter discutere. Ma se vi combattete, avrete perso tutto, la terra del ‘48 e anche quella di oggi. E non solo il campo o l’azienda, ma anche i vostri cari.
Il desiderio della pace sfocia troppo spesso in una posizione utopica che non si mostra capace di far i conti con la realtà. Che compito spetta alla politica?
Il realismo in politica è l’unica strada: occorre certo saper vedere lo scopo più lontano, ma anche essere saggi nel fare le tappe per raggiungerlo. Lo scopo ultimo potrebbe non sembrare alla nostra portata, ma a questo servono le tappe. E la destinazione ultima non può che essere questa: che ci sono due popoli, il popolo palestinese, che ha pieno diritto alla sua terra, e il popolo israeliano, che per altri motivi ha uguali diritti. La sua terra però non è la Cisgiordania, ma la parte che le Nazioni Unite hanno dato a Israele. E la Palestina non è tutta la Palestina storica, ma la parte che le Nazioni Unite hanno dato ai palestinesi. È giusto ragionare e costruire un progetto, ma appropriarsi di quello che non si possiede e fare legge a se stessi è il principio della barbarie. Prevale un atteggiamento barbaro da entrambe le parti. Ma chi ne soffre di più? I palestinesi e le persone innocenti.
Con generazioni di morti da entrambe le parti la soluzione del conflitto non converrebbe a tutti?
Non cercano la pace né la coesistenza perché ognuno ha un progetto ideologico al quale non vuole rinunciare. Hamas che non vuole accettare ad ogni costo l’esistenza di Israele, e lo Stato ebraico che vuole mostrare ai palestinesi chi è il più forte e non intende ritirarsi dalle terre illegalmente occupate. Da una parte un gruppo fondamentalista, dall’altra un governo che dice di essere democratico. E che essendo il più forte, dovrebbe fare i primi passi.
Sta dicendo che l’iniziativa della pace deve partire da Israele? Perché?
Perché la politica come rapporto di forze da sola non basta. La giustizia non è la virtù del debole, che in quanto tale non può concedere, ma del forte. Ed è a chi è più forte che spetta di fare le concessioni.