Si ricorda sempre — quando si discute di Medio Oriente — l’accordo del 1916 tra Francia e Regno Unito che creò dal nulla sulla carta geografica quella che doveva essere l’organizzazione statuale che avrebbe dovuto prendere il posto della dissoluzione dell’Impero ottomano. Un accordo che nasceva sull’esito, che si riteneva probabile, della vittoria sulla Germania degli Imperi centrali e che tuttavia non aveva previsto l’avvento di Ataturk e dei suoi Giovani turchi, che avrebbero costruito la nuova Turchia sulla pulizia etnica contro i greci e gli armeni.
Così come non si era previsto la rivoluzione russa e la lentissima crescita (caduta l’Urss) di una potenza euroasiatica il cui perno sarebbe stato, dopo la sconfitta del comunismo, l’accesso ai mari caldi del Medio oriente.
Del resto già l’Urss si prefiggeva di continuare la politica zarista, appena finita la seconda guerra mondiale, appoggiando e costruendo dall’Università Lumumba di Mosca le élite del panarabismo e del baathismo in Iraq e in Siria.
Diversamente andò con il panarabismo. L’errore franco-inglese e israeliano di Suez (1956), con i paracadutisti che invadevano dal cielo l’Egitto con l’inaspettata solidarietà Usa a un Nasser vincitore, quell’errore pose le basi della fine dell’egemonia inglese nel Mediterraneo e l’avvento di quella Usa in quella parte del mondo.
Nel 1963 successe l’imprevedibile un altra volta: il Regno Unito abbandonava il Golfo! Il colpo di stato iraniano contro il principe imperiale Mossadek era l’ultimo bagliore della potenza imperiale britannica. Ma a dominare, ora, sarebbero rimasti gli Usa e i loro alleati: l’Arabia Saudita, l’Egitto strappato all’Urss con una mossa diplomatico-militare geniale di Eisenhower, e lo Scià Reza Pahlavi che avrebbe dovuto fare buona guardia al petrolio e alle vie di comunicazione dal Canale allo stretto di Hormuz. Il colpo di stato in Sudan, con lo stermino di un milione di comunisti (la stessa cosa accadde in Indonesia) era un avvertimento terribile all’Urss, che in effetti non trovò più un suo ruolo mediorientale sotto il comunismo.
L’Italia fu l’altro inaspettato protagonista. Enrico Mattei riusciva a concludere importanti accordi con l’Egitto e l’Algeria (e questo costava la vita a Mattei ucciso dai francesi dell’Oas, gli stessi attentatori di De Gaulle, che scampò miracolosamente alla morte sulla sua Citroen crivellata di colpi).
L’Italia dunque protagonista inatteso. Così inatteso che riuscì anche a riacquistare un peso inaspettato in Libia nonostante i rapporti diplomatici difficilissimi con il colonnello Gheddafi, che per primo, grazie alla sua corte di giovani nazionalisti, promosse quell’ondata di nazionalizzazioni petrolifere che non si poterono evitare. Nessuno ricorda queste vicende, che sono molto più importanti per comprendere l’oggi che rifarsi al 1916. Gli Usa reagirono debolmente all’ondata di oil nationalism che pervase negli stessi anni Ottanta del novecento, tanto l’America del Sud quanto il Medio oriente.
Disponiamo ora di una vasta letteratura che nessuno legge, né gli studiosi o presunti tali, né i decisori pubblici.
L’Iran perseguì una via diversa. Instaurò una repubblica teocratica che i francesi avevano nutrito in fasce in funzione imperiale, così come facevano con i dittatori centroafricani. Ricordo ancora quando nei miei anni alla Maison des Sciences de l’Homme presso L’École des hautes études, alcuni colleghi mi accompagnarono nei sobborghi di Parigi dove viveva, sorvegliatissimo dalla Sûreté, un capo storico sciita che avrebbe — sconfitti i liberali della borghesia iraniana — assunto il potere in Iran ponendo le basi del fuoco della lotta scismatica sunno-sciita che covava sotto la brace da quando, negli anni venti, re Saud aveva cacciato gli hashemiti (pur anch’essi sunniti) dalla Mecca impossessandosi di un patrimonio simbolico terribile. La potenza britannica trovò una nuova patria agli hashemiti in una Giordania che da allora avrebbe assunto un ruolo strategico sulle braci del futuro conflitto con gli ebrei, che scampavano al maleficio dell’antisemitismo di cui il nazismo fu il culmine più orribile. Ma il culmine, ricordiamolo sempre.
L’unica nazione che non era una grande potenza, l’unica nazione che non aveva aspirazioni imperiali perché il fascismo aveva infangato lo stesso concetto di impero — ma che aveva tuttavia un ruolo in Nordafrica e in Egitto —, era l’Italia. Ora i fatti egiziani e libici odierni sono troppo noti per ricordarli qui. Essi ci pongono dinanzi all’interrogativo: che cosa rimane di quel ruolo — che, sia ben chiaro, è sbagliato chiedere o identificare nell’Eni erede di Mattei? La risposta è: tutto è ancora in gioco, ma tutto è precario.
In Egitto non abbiamo saputo esercitare un’azione diplomatica avveduta dopo la tragedia del povero Regeni, mandato allo sbaraglio dai suoi professori di Cambridge: guai a ritirare gli ambasciatori proprio quando servono e quando poi si comportano cosi magnificamente come gli italiani in quel tragico frangente.
In Libia la situazione è drammatica e all’Eni non si deve chiedere nulla, perché tutto ha fatto sempre con un coraggio e un’intelligenza ammirevoli. Il problema è sempre governativo, ossia politico al massimo grado e l’Eni non è mai stata l’architrave della nostra politica estera ma solo una parte del tutto.
La stessa vicenda libica lo dimostra. Oggi siamo tutti consapevoli che Gheddafi non doveva essere eliminato ma semmai deposto dopo una negoziazione con gli Usa, che non a caso coltivava in sé il generale che oggi tutti presentano come filo franco-russo ma che in verità è cittadino americano oltre che libico.
La Francia, che non rinuncia a saldare il dominio centroafricano con il dominio di una parte strategica della Libia come il Fezzan, agisce spregiudicatamente. Come il Regno Unito, che non rinuncia a rinverdire un dominio che ora condivide ma che non vuole perdere. E naturalmente la Russia, che ha negli alawiti della Siria (invenzione francese per dominare insieme Libano e Siria secondo la tradizione della grande Siria filo-francese) la sua punta di lancia per difendere la sua base siriana, che con quella di Sebastopoli consente agli allievi di Primakov di riconoscersi nella loro storia e di rinverdirla. La Turchia neoataturkiana, anticurda e filoisraeliana, anch’essa deve avere la sua parte, così come un Egitto che è fortunatamente risorto dalle funeste cosiddette Primavere arabe.
L’Italia non riesce a comprendere che il suo ruolo è quello dei senussi ai tempi della conquista dell’unità tribale libica: presentare il ramoscello d’ulivo alle tribù in lotta, promettendo loro d’inverare un bene comune. Un tempo era la fine della lotta fratricida per il controllo dell’acqua, oggi è l’unione per bloccare i traffici dei migranti che consegna tutta la Libia nelle mani dei mercanti di schiavi arabi come nelle consolidate tradizioni dello schiavismo.
Il ministro Minniti e la nostra intelligence ha compreso benissimo tutto ciò. L’aveva compreso, ben consigliato, Silvio Berlusconi, che rovesciò il tavolo e mise finalmente insieme politica energetica e politica estera, ma che fece tuttavia un colossale errore: non negoziò preventivamente quella mossa ardita con gli Usa, che potevano essere convinti con la prospettazione di una possibile transizione post-gheddafiana. La stessa cosa che è oggi necessaria in Siria con e non contro gli alauwiti.
Berlusconi sarà accomunato nella storia ad Andreotti e a Craxi, tutti vittime dello stesso errore. Guai a ripeterlo, ma guai ad essere inattivi. Occorre interagire diplomaticamente con tutti gli attori statuali occidentali prima richiamati, con l’Egitto e la Turchia odierna.
La politica è insostituibile. Gli interessi economici, petroliferi o no, la seguono sempre e se la precedono debbono subito riprendere il ruolo di buoni secondi, come avviene nelle poliarchie democratiche e non autoritarie.
E’ una logica che pare impossibile da perseguire in Italia, eppure è la sola via d’uscita da un percorso che diversamente diviene catastrofico. Soprattutto quando guardiamo anche al futuro energetico che la politica e le lobby dominanti in questo campo, tutto meno che petrolifere, ci rappresentano come auspicabile in Italia.
A meno che, con la distruzione che pare caldeggiata dai più, del nostro patrimonio di impianti di raffinazione e delle nostre risorse fossili nazionali, non si voglia trasformare l’Italia nella Polonia a cui gli Usa propongono il loro gas naturale.
In questo modo politica ed economia si ricongiungerebbero. Ma a che prezzo?