Gli Stati Uniti vogliono preservare a tutti i costi l’enclave di Ghouta Est in quando indispensabile per il proseguimento del conflitto siriano. Per questo, venerdì la rappresentante permanente all’Onu Nikky Haley ha detto chiaramente che “Gli Stati Uniti sono pronti a colpire le forze governative in Siria, a meno che non venga fornito un cessate il fuoco immediato nel Ghouta Est”.
Secondo fonti dirette, che abbiamo contattato a Damasco, la possibilità di un intervento statunitense è reale. In più, il portavoce del ministero della Difesa russo generale Sergei Rudskoy sabato ha avvisato che “gruppi navali di attacco alleati nel Mediterraneo orientale, Mar Rosso, Golfo Persico si preparano ad un attacco alla Siria. Verrà usato come pretesto un falso attacco chimico”.
Se ciò avvenisse, potrebbe comportare conseguenze imprevedibili, visto che Mosca ha fatto sapere che “risponderebbe a qualsiasi aggressione Usa che minacci le sue forze in Siria”.
Naturalmente è grottesco che tutto ciò stia avvenendo sull’onda della speculazione continua sull’umanitarismo. Ma ora abbandoniamo per un attimo il caotico sfondo internazionale che si prepara ad esasperare ancora di più il conflitto e vediamo com’è realmente la situazione sul campo. Innanzitutto, il primo dato è che l’esercito siriano ha riconquistato il 70 per cento dell’area in mano ai jihadisti. Un altro dato positivo è che ad oggi sono uscite fuori dall’enclave circa 17mila persone; ciò vuol dire che la popolazione rimasta è ora concentrata solo nella più grande delle tre sacche, quella della città di Duma.
Altro dato confortante è che i negoziatori russi hanno concluso un accordo con la milizia jihadista Jaish al Islam che detiene la città di Duma, ovvero dove si trova la maggior parte della popolazione. In conformità al documento firmato, i militanti consegneranno tutte le armi pesanti all’esercito siriano e russo. Il gruppo Jaysh al-Islam rilascerà tutti i prigionieri e gli ostaggi presenti a Duma, compresi i combattenti dell’esercito siriano. E’ previsto inoltre che i feriti siano curati e che i miliziani potranno accettare un’amnistia o, in alternativa, saranno liberi di lasciare l’area alla volta di Idlib o Deera.
Intanto gli sfollati continuano ad attraversare i corridoi umanitari, e raggiungono i centri di raccolta provvisori, dove trovano assistenza. Venerdì la televisione di stato siriana ha trasmesso ininterrottamente in diretta l’esodo dei civili da Ghouta Est ed anche in Italia via internet era possibile seguire quanto accadeva. Com’era accaduto per Aleppo, le prime dichiarazioni fornite dagli sfollati confliggono con la narrativa proposta dai grandi media generalisti (che ora si guardano bene dall’intervistare i civili di Ghouta). I filmati mostrano uomini, vecchi, donne, bambini. Sono tutti molto provati dalle guerra, viaggiano portandosi dietro poche cose, ma appena possono parlare, dimostrano che il loro sentimento corrisponde a quello della stragrande maggioranza dei siriani: desiderano che tutto finisca e che finalmente possa balenare una possibilità di ritorno alla normalità.
Per quando riguarda invece la vita all’interno dell’enclave, le testimonianze descrivono una situazione di vita insostenibile, protratta per anni, dove la popolazione si è trovata alla totale mercé delle bande jihadiste: “Siamo salvi, Dio vi benedica! [I terroristi] per 7 anni ci hanno ucciso imprigionato”, dice un uomo.
Ma la vicenda degli ostaggi civili non è legata solo agli ultimi eventi: è cominciata nel 2013 e poi è proseguita negli anni successivi, passando attraverso il tremendo massacro di Adra, in cui i ribelli hanno ucciso a sangue freddo decine di civili perché alawiti, cristiani, drusi.
In definitiva, Ghouta mostra oggi ciò che l’occidente non vuole far vedere: è stata solo una gigantesca prigione, un feudo jihadista da dove la gente vuole fuggire. In questo contesto, il relativo isolamento con il mondo esterno o le battaglie con i governativi non sono state le uniche cause di morte per i civili: per anni Ghouta Est è stata il teatro di continui conflitti armati tra le diverse fazioni ribelli, allo scopo di stabilire il predominio nell’area.
Le lotte intestine tra le diverse milizie si sono accentuate soprattutto durante i periodi di tregua e sono costate diverse centinaia di morti tra i militanti ed i civili. Regolarmente, quando la popolazione ha provato a protestare, è stata duramente repressa. Gli sfollati raccontano che erano “trattati come schiavi”, e che se provavano a protestare, “i miliziani aprivano il fuoco”.
Un altro chiaro esempio del metodo di occultamento di responsabilità “non gradite” è il rinvenimento di un laboratorio per la produzione di armi chimiche a Shefouniya (Ghouta orientale). Secondo l’agenzia Sana, i componenti prodotti nel laboratorio chimico sarebbero stati utilizzati dai ribelli negli attacchi chimici compiuti a Latakia e in altre regioni della Siria. L’attrezzatura, secondo quando mostrato dalle marchiature, è proveniente dall’Egitto e dall’Arabia Saudita. Il laboratorio conteneva serbatoi per la miscelazione di prodotti chimici ed era adibito alla la produzione di sostanze chimiche, comprese quelle contenenti cloro.
Sono indizi gravi. Ma ora i cittadini di Damasco dopo le bombe dei ribelli che per sette anni sono piovute sulle loro teste, si chiedono se arriveranno anche quelle americane. Alcuni colloqui decisi in extremis tra i vertici militari russi ed statunitensi (generale Joseph F. Dunford), lasciano aperto uno spiraglio.