Bloccare i lanci di missili da Gaza, e impedire le forniture di armi in futuro. Questi gli obiettivi di Israele, mentre le truppe avanzano verso l’interno di Gaza City, non certo con l’intento di occupare la città, ma solo di rendere sempre più complicata la prosecuzione delle attività militari da parte di Hamas. È questa l’opinione del vicedirettore del Tg5 Toni Capuozzo, il quale, appena rientrato dalle zone degli scontri, spiega a ilsussidiario.net qual è nel dettaglio la situazione della guerra in Medio Oriente.
Capuozzo, cerchiamo innanzitutto di capire a che punto sono le operazioni militari. Israele ha parlato di “terza fase”: cosa significa?
Bisogna ragionare sui pochi elementi certi che abbiamo. Uno di questi è il fatto che Israele ha fatto entrare nella Striscia di Gaza i riservisti: ad essi probabilmente verrà affidato il presidio delle zone già controllate dentro Gaza, mentre i reparti professionali di leva si spingono più avanti. Ciò detto non credo proprio che Israele voglia prendersi la patata bollente di rioccupare Gaza, lasciata qualche anno fa con i costi che sappiamo. Più probabile che l’obiettivo finale sia rioccupare la fascia di confine con l’Egitto, e stabilire una fascia di sicurezza a nord della Striscia.
In quali condizioni si trova Hamas dal punto di vista militare?
Molti dei missili Qassam che venivano lanciati prima dell’inizio dell’operazione israeliana partivano da zone a ridosso del confine con Israele, per raggiungere più facilmente gli obiettivi e per operare in zone scoperte. Dall’inizio della reazione israeliana, non solo il numero di missili è diminuito, ma questi si sono anche fatti sempre più imprecisi. Sparando sempre da uno stesso punto, infatti, si imparano le coordinate, mentre spostandosi in continuazione si fanno sempre nuovi calcoli, e si sbaglia. Inoltre i miliziani di Hamas hanno dovuto notevolmente accorciare le operazioni di lancio, ridotte a 90 secondi, per non essere intercettati dalle operazioni aeree israeliane. Questo ha reso sempre più imprecisi i lanci, e noi stessi abbiamo visto missili cadere vicino a noi, praticamente in aperta campagna.
Indebolita la capacità militare di Hamas, ora dunque Israele che obiettivi a lungo termine si pone?
Israele credo che abbia due obiettivi irrinunciabili: bloccare per sempre il lancio di Qassam, facendo inaridire gli arsenali, e bloccare l’afflusso di nuove armi. Inoltre penso che Israele punti anche a creare attriti nella popolazione. Finché Hamas operava dalle zone di confine non c’erano problemi, ma quando questi lanci avvengono sotto le case dei civili anche l’atteggiamento dei civili stessi cambia. E più viene ridotto il campo d’azione di Hamas, più questa situazione si complica. Certo, l’effetto è anche quello di creare rabbia contro Israele; ma al tempo stesso la popolazione non è più così contenta di quello che fa Hamas.
Vista più da vicino rispetto a noi, com’è la situazione della popolazione civile a Gaza?
In realtà nemmeno noi inviati abbiamo informazioni dirette. Certo, stando lì vediamo le televisioni di Gaza, oppure parliamo con arabi israeliani che hanno parenti nella Striscia. Potremmo dire che se qui in Italia le informazioni sono di quarta mano, là sono di seconda. Dovendo dire qual è la caratteristica particolare di questa guerra dall’interno, il vero punto tremendo è che si tratta di una situazione in cui non si vede una via d’uscita. Per il resto bisogna essere molto obiettivi, perché spesso c’è anche molta ipocrisia a parlare di questo. Guardiamo ad esempio i profughi: si tratta di profughi interni, che si spostano di qualche chilometro da casa propria, andando a casa di parenti o in stabili dell’Onu, mentre l’Egitto non ha aperto le frontiere. Nelle altre guerre la situazione è ben diversa: nella guerra in Afghanistan c’erano oltre due milioni di profughi tra Pakistan e Iran, che se ne andarono prima durante il regime dei talebani e poi durante l’offensiva americana.
Lei dice che la caratteristica peggiore di questa situazione è che non ci sia una via d’uscita. Cosa dice delle prospettive che dovrebbero aprirsi grazie alla mediazione dell’Egitto?
L’Egitto sta sicuramente giocando un ruolo importantissimo, ma dietro le quinte ci sono molti elementi che pesano su queste trattative. Innanzitutto l’Egitto stesso non vuole truppe internazionali sul proprio territorio, perché farebbe la figura di chi non è in grado di controllare in casa propria; ma al tempo stesso non può nascondere che il traffico di armi viene dal Sinai (che curiosamente è anche dove noi andiamo in vacanza), ed è un traffico che arriva principalmente dall’Iran. Dall’altro lato non dimentichiamo quanto detto anche dall’Anp, e cioè che Hamas più che rispondere alla popolazione di Gaza, da cui pure è stata eletta, risponde a Damasco e Teheran. Si dice che l’Iran spinga moltissimo perché Hamas non accetti il cessate il fuoco, minacciando la fine degli aiuti e del rifornimento di armi. Hamas è poi legata ai Fratelli Musulmani, non certo a Mubarak. Infine non è pensabile mandare lì truppe internazionali, finché risulta chiaro che, data la posizione di Hamas, queste sarebbero esposte a rischi altissimi di sequestri e altre azioni ostili.
Che ruolo può avere l’Italia nelle vicende future, nel caso si realizzi la pur difficile ipotesi dell’intervento di una forza internazionale?
L’Italia era già presente con una missione europea al confine tra Gaza e l’Egitto, con una quindicina di carabinieri; quindi ha un’esperienza diretta della situazione. È stata una presenza positiva, svolta in partnership con l’Anp, per cercare di portare un minimo di legalità in quel valico di frontiera; un’esperienza che si è però sostanzialmente interrotta con la presa di potere da parte di Hamas. La collaborazione è stata cioè proficua fino al momento in cui l’Anp non è stata sostanzialmente umiliata dalle armate di Hamas (non parlo solo di quello accade nei tunnel, ma anche nel famoso terminal, dove passava di tutto, con gli uomini dell’Anp sempre più sviliti e messi in un cantuccio da quelli di Hamas). Allora la situazione si è fatta insostenibile, i nostri sono stati ritirati ed è rimasta solo una presenza simbolica. Ma questo è un terreno su cui si potrebbe tornare: nell’ottica di ristabilire in quella frontiera una qualche forma di legalità, l’Italia potrebbe dare il suo contributo avvalendosi dell’esperienza già maturata. Ovviamente, ripeto, solo si ristabilisse un contesto di sicurezza, senza andare lì essendo sottoposti continuamente alla minaccia di sequestri.
Da ultimo le chiedo un’opinione sulla posizione del Vaticano. Il Papa afferma che l’«opzione militare» non può portare risultati: oltre al valore spirituale, che valore concreto hanno queste sue parole?
Io penso che la Terra Santa sia un tallone d’Achille del Vaticano. La legittima difesa delle comunità cristiane in Terra Santa, e il tormentato rapporto di fatto con Israele fanno sì che questo sia per il Vaticano un nervo scoperto. È molto facile dunque incorrere in scivoloni, come ad esempio quello accaduto al cardinal Martino in un’intervista a questo giornale. La mia perplessità è che da un lato la politica del Vaticano non abbia sortito l’effetto di protezione della comunità cristiane: oggi Betlemme non è più una città a maggioranza cristiana. Le comunità cristiane stanno rapidamente declinando, anche perché la vecchia armonia tra arabi cristiani e arabi musulmani si è andata offuscando con la crescita del fondamentalismo. Poi però ci sono le parole del Papa, che sono altre, e “alte”: sono convinto anch’io che la reazione israeliana, seppur legittima nelle sue motivazioni (azzerare una minaccia permanente) rischi però di allevare intere generazioni con l’odio negli occhi. Le vittorie militari nel presente rischiano di trasformarsi in sconfitte per il futuro; ed è vero che la guerra genera guerra. Quindi il messaggio è giusto; ma è necessario che il Vaticano riesca a dare corpo a questo messaggio costruendo una posizione più solida e meno reticente. Da una parte chiarendo il rapporto con Israele, e dall’altra evitando, in virtù di un certo pensiero benaugurate, di sottovalutare la crescita del fondamentalismo islamico.