Una proposta “analoga” in Italia era stata fatta da una associazione autonoma di consumatori di Roma ed era stata accolta con pari sdegno da entrambi gli schieramenti politici.
In Iran invece l’iniziativa è diventata addirittura “di Stato”, perchè si sa che nei paesi musulmani politica e religione si intrecciano in modo così che è impossibile – a dispetto dei molti dibattiti occidentali sulla laicità dello stato – capire dove inizia l’uno e finisca l’altro.
La Guida suprema iraniana, ayatollah Ali Khamenei, infatti, ha emesso una “fatwa”, cioé un decreto religioso, in cui dichiara vietato il consumo e il commercio di prodotti di aziende sospettate di avere rapporti con Israele. Lo scrive oggi il quotidiano Keyhan International.
«L’acquisto, l’importazione e la promozione di ogni prodotto i cui profitti vadano agli occupanti israeliani direttamente o indirettamente, sono vietati», ha affermato Khamenei. Il governo di Teheran, nei giorni scorsi, ha approvato una proposta di legge mirante a “punire” con sanzioni le aziende straniere che abbiano «legami con il regime sionista».
Il problema è stabilire quali siano queste aziende. Accuse di questo genere vengono mosse regolarmente da ambienti fondamentalisti a grandi società straniere operanti in Iran. E’ il caso della Benetton, che il 30 dicembre scorso, poco dopo l’inizio dell’offensiva israeliana nella Striscia di Gaza, ha visto dato alle fiamme uno dei suoi numerosi negozi a Teheran.
Gli studenti fondamentalisti che nelle ultime settimane hanno manifestato a Teheran davanti ad ambasciate occidentali e di Paesi arabi hanno mostrato cartelli ostili contro molti marchi a loro avviso legati ai “sionisti”: dalla Coca Cola alla Pepsi, dalla Timberland alla Chicco, da Ariel a Hugo, tutti prodotti di largo consumo in Iran.