Avete mai letto su qualche media occidentale che a quasi due anni dalla liberazione di Aleppo ancora si combatte in alcune periferie dalla città martire della guerra siriana? Eppure è così, come ci dice padre Firas Lutfi, superiore del Collegio Francescano di Terra Santa ad Aleppo. “La situazione ad Aleppo e in tutta la Siria non è ancora stabile, in alcuni quartieri di periferia si combatte ancora, ma certamente non è più l’incubo che era fino a due anni fa”. Padre Lutfi ci racconta i molti progetti e le tante iniziative che i frati francescani di Aleppo stanno mettendo in atto, nel loro piccolo, per la popolazione: “L’emergenza adesso è la povertà, le grandi fabbriche sono state distrutte dai bombardamenti, lavorano solo i dipendenti statali, ma anche loro fanno fatica ad arrivare non alla fine del mese, ma alla metà del mese”.
Padre Lutfi, un anno fa ci raccontava di quando i missili cadevano all’interno del vostro convento e sulle chiese vicine. Come è adesso la situazione ad Aleppo?
La Siria non è ancora un paese stabile dal punto di vista politico e militare, in alcune periferie di Aleppo si combatte ancora, ci sono zone ancora occupate dai jihadisti.
C’è però una fase di ripresa, almeno qualcosa sta cambiando?
La situazione è molto migliorata rispetto a due anni fa quando ci bombardavano giorno e notte con razzi e bombole di gas. Questo grazie a Dio è finito, la gente può dormire, andare al lavoro, all’università e a scuola senza paura di essere uccisa mentre torna a casa. L’emergenza adesso è un’altra.
Quale?
Il lavoro. L’industria che contraddistingueva Aleppo in quanto nervo portante dell’economia e della finanza del paese, non esiste più, intere fabbriche e aziende sono andate distrutte nei bombardamenti. Più della metà della popolazione ha perso il lavoro. Quelli che hanno un lavoro sono i dipendenti statali, che riuscivano a lavorare anche durante la guerra, ma i loro stipendi sono ridotti a pochissimo vista la crisi del paese. Quello che guadagna un dipendente statale non gli basta ad arrivare a metà mese, la povertà è così aumentata come i bisogni della gente.
Come Chiesa, riuscite a fare qualcosa per sostenere la popolazione più disagiata?
Certamente, la carità cristiana è sempre stata concreta anche durante tutto il periodo della guerra. Grazie ai nostri amici italiani della Caritas e di tante parrocchie riuscivamo a dare pacchi alimentari a tanti cristiani e non cristiani. Adesso siamo in una nuova fase, dall’emergenza alla fase di sviluppo.
Ci spieghi in cosa consiste.
Abbiamo messo a punto alcuni progetti, prima di tutto la possibilità di offrire un sostegno economico con un assegno annuale a chi vuole mettere su famiglia e a chi vuole aprire piccole imprese commerciali, come magari un negozio.
Ci può fare altri esempi?
Io sono direttore del progetto di recupero psicologico di bambini traumatizzati dalla guerra. Ho così modo di impiegare uno staff di circa 40 persone, il che vuol dire sostegno economico a 40 famiglie. Un altro progetto è stato aprire il convento per tutta l’estate. C’è una piccola piscina e l’unico spazio verde di Aleppo, qui possono venire a giocare i bambini con le loro famiglie. In questo modo riusciamo a impiegare altre 40 persone per varie attività, in tutto sosteniamo economicamente 80 famiglie.
Come sono i rapporti con la comunità islamica?
Il rapporto con le autorità islamiche e il popolo è sempre stato di amicizia e non ha subito grandi danni perché sono persone e cittadini come noi, si studia e si lavora insieme. Purtroppo per colpa delle ingerenze straniere, soprattutto dei sauditi, dei turchi e dei fondamentalisti islamici questo rapporto si è un po’ incrinato, ma quello tra Chiesa e autorità islamiche è ottimo, fondato nella concretezza della situazione.
Avete delle iniziative in comune?
Sì, riguarda i bambini nati nei gruppi jihadisti che adesso sono orfani e senza nazionalità. Insieme alle autorità islamiche vogliamo dare loro un riconoscimento ufficiale perché sia noi cristiani che loro ci sentiamo tutti figli della Siria. E’ una emergenza umanitaria che ci aiuta a capire il nostro ruolo di religiosi, servire l’uomo dove ha bisogno, dove soffre.
(Paolo Vites)