In questi giorni l’attenzione dei geopolitici si concentra sulla penisola arabica, sul Golfo Persico. La morte del re Abdullah, in Arabia Saudita, è certo una circostanza degna di nota e di analisi se si pensa che la sua azione di governo inizia non nel 2005, quando viene formalmente incoronato sesto re saudita, bensì nel 1995 quando succede al predecessore Fahd, colpito da ictus, nel ruolo di reggente del Regno. Vent’anni in cui, nonostante all’esterno si predicasse il dialogo interreligioso, all’interno l’Arabia Saudita ha potenziato ai massimi la carica ultraconservatrice e radicale intrinseca nel wahabismo, corrente dominante a Riyadh.
Certo non è possibile sganciare la morte del re da quel che accade nel resto della penisola arabica e del Medioriente; il colpo di stato degli Houthi, ribelli sciiti nello Yemen nati nel 1992, pone infatti una serie di interrogativi che vanno ad incrociarsi con ciò che accade nei territori oggi dominati da Isis. Il regno dei Saud, infatti, non da ieri si sente minacciato su due fronti: lo sciismo che avanza nel quadrante e il califfato di Al Baghdadi. Proprio colui che riscuotendo consensi in grossa parte della galassia terrorista, da Boko Haram a Al Qaeda nel Maghreb Islamico, si era autoproclamato principe dei credenti facendo dunque intendere a chiare parole come il centro dell’islam mondiale fosse prossimo a spostarsi dall’Arabia Saudita allo Stato islamico, da Riyadh a Raqqa o Mosul, tanto per intenderci.
Il muro difensivo realizzato dai sauditi al confine con l’Iraq e la Siria, che ora temono le frange jihadiste solo fino a qualche mese fa foraggiate assieme al Qatar, sta proprio a testimoniare che la minaccia concreta è stata recepita e che si corre frettolosamente ai ripari; tempo fa, proprio su questo giornale, misi in evidenza quanto alta fosse la percezione del rischio di essere aggrediti da Isis da parte dei Saud e ora tutto torna con lineare precisione.
Ci sono però minacce, almeno così vengono intese a quelle latitudini, che non possono essere debellate con un muro o un bastione difensivo fisico, e che derivano direttamente dalla crescita esponenziale degli sciiti nella penisola e in Medioriente. Abbiamo detto dello Yemen, in cui la componente sciita degli Houthi ha spodestato il governo in carica e costretto il presidente ad adeguarsi al nuovo status quo: un profondo quanto brutale distacco dalla decennale cappa di influenza saudita e un ipotizzabile avvicinamento con la grande casa madre dello sciismo, ovvero l’Iran.
Una roccaforte sciita solidamente radicata nel Golfo, che già vede nella stessa Arabia Saudita quasi il 20 per cento di sciiti, è considerata fattore di instabilità da Riyadh che nelle ore successive al rovesciamento del governo yemenita non ha mancato di far sentire la sua voce, gridando al complotto guidato da Teheran. Gli sciiti nello Yemen, infatti, sono quasi il 50 per cento della popolazione.
E non sono timori del tutto ingiustificati quelli della monarchia saudita, che conosce bene i dati riguardanti la corrente sciita preponderante ad Est dei suoi confini, che si aggira attorno all’87 per cento. Anche l’Iraq, che oggi sperimenta nella metà del suo territorio il dominio di ispirazione salafita di Isis, vede quasi la metà della sua popolazione in forza allo sciismo e dunque il timore raddoppia, perché qualora il califfato dovesse essere sconfitto, gli sciiti tenderebbero a rivendicare il governo di Baghdad.
Se aggiungiamo che la Siria è governata dalla minoranza alawita, e che i progetti di abbattere Assad sponsorizzati proprio da Arabia Saudita e Qatar sono falliti, il quadro si fa via via più completo e delineato; come già detto in altre occasioni, è in corso un vero e proprio conflitto interislamico, nel quale non solo i sunniti si fronteggiano con gli sciiti ma vedono le varie anime al proprio interno sfidarsi per la supremazia. Nel tentativo di avanzata radicalista e jihadista del salafismo militante, vediamo dunque alcuni spiragli di discontinuità rappresentati dalla crescita delle correnti sciite e dal loro riprendere forza anche in territori fino a ieri considerati off limits, nei quali già solo poter pregare in casa propria è visto come una conquista. Da Kerbala a Riyadh, da Baghdad a Damasco, lo scontro fra gli sciiti di Alì e i sunniti di Abu Bakr, considerato dai primi un usurpatore della successione al Profeta, prosegue ancora ma con esiti che nemmeno il politologo più esperto potrebbe oggi prevedere. E che forse nemmeno l’islam stesso, in tutte le sue numerose componenti, riesce ancora ad intravedere