Anis Amri, il terrorista jihadista tunisino colpevole della strage di Berlino, è stato fermato e ucciso ieri notte dalla polizia italiana. Un successo che non deve far dimenticare il grande rischio che corre l’Europa, con complicazioni che possono essere planetarie. “Berlino dimostra che i terroristi sono più deboli — spiega, da Pechino, Francesco Sisci, editorialista di Asia Times —, che nell’antiterrorismo ci sono stati progressi e che questi vanno proseguiti. Ma l’attentato ad Ankara prova che la Turchia è l’elemento pericolosamente debole di tutto il sistema euroasiatico”.
Sisci, l’attentatore tunisino Anis Amri è stato ucciso a Milano in seguito ad un semplice controllo, una “operazione non pianificata” ha detto il questore di Milano. Era arrivato in treno dalla Francia. Come commenta?
Questo purtroppo è un punto inquietante, oggettivamente. L’attentatore è stato in Italia, schedato in Italia, in carcere in Italia, liberato dall’Italia. E’ andato in Germania, ha compiuto un sanguinoso attentato ed è stato ucciso in Italia, non catturato e consegnato alle autorità tedesche. Quanto accaduto dimostra che la collaborazione tra forze dell’ordine europee non funziona e che c’è bisogno come minimo di una sicurezza antiterrorismo unitaria europea all’interno dell’area Schengen. Senza questo siamo tutti ostaggio dei terroristi.
E per quanto riguarda l’Italia?
Il fatto che l’attentatore sia stato prima arrestato e dopo ucciso in Italia dimostra che la capacità antiterroristica italiana è senz’altro la più efficace in tutta Europa. Questa capacità dovrebbe essere messa al servizio del continente e non solo limitata all’Italia. Ma esiste una volontà politica forte europea che riesca a imporre a servizi con maggiori o minori margini di autonomia all’interno dell’Europa e di ogni paese, una reale unificazione?
Che impressione si può ricavare, dalla distanza, su questo ultimo attentato che si è verificato nel cuore dell’Europa, a Berlino?
Due elementi. Il primo è più semplice: se si realizza una forza antiterrorismo europea, necessaria alla luce delle connessioni paneuropee dei terroristi e di tutti gli attentati che si sono verificati nel continente, ci avviciniamo a un’unione politica europea.
E il secondo?
Il secondo è più complesso. Questo attentato, come quello di Nizza, rivela che il terrorismo di matrice radicale islamica sta perdendo colpi ed è più debole. L’uso di camion mostra una debolezza organizzativa e militare. Compiere attentati con armi da fuoco ha bisogno di molti più organizzazione: nascondere e spostare uomini armati è più difficile e pericoloso che nascondere e spostare semplici camionisti. Inoltre uomini che sappiano usare le armi hanno bisogno di addestramento, e le armi stesse devono essere trasferite. Il tutto vuol dire molti più soldi e uomini coinvolti. Il fatto dunque che non vediamo uomini armati dimostra che la repressione di ogni stato e la collaborazione europea comincia a funzionare ed è efficace.
D’accordo, ma che futuro ci aspetta?
L’esperienza di Israele dice che dopo i camion i terroristi useranno le auto e poi i coltelli, livelli organizzativi sempre più semplici. Per fare fronte a questa tendenza già in atto, l’organizzazione pan-europea deve essere molto più stretta ed efficace altrimenti soccomberemo a una progressiva paranoia sociale.
Ankara e poi Berlino. Mentre parliamo un aereo libico è stato dirottato a Malta. A che cosa siamo di fronte?
Credo che quello che sta succedendo siano segnali di debolezza dell’Isis, che sta perdendo sul terreno e cerca di compensare le sue sconfitte nella guerra “vera” in Siria con gesti clamorosi che dicano ai suoi sostenitori e finanziatori “siamo ancora vivi”. Di certo però si tratta di gesti inconsulti che bruciano ponti per i terroristi.
In che senso?
La Turchia è stata una sponda importante per l’Isis, poiché Ankara voleva bloccare gli spazi che si aprivano in Siria per tanti suoi avversari potenziali e reali. In primo luogo i curdi, partiti dall’Iraq, allargatisi poi alla Siria e che mirerebbero a riunirsi con i curdi di Turchia, circa il 20 per cento della popolazione del paese. In secondo luogo a sostenere il regime di Assad a Damasco ci sono altri due avversari millenari della Turchia, la Russia e l’Iran. Una sconfitta dell’Isis significherebbe una vittoria di queste tre forze e quindi oggettivamente un indebolimento di Ankara nella regione. Ora, questi attentati in Turchia dimostrano che l’Isis è fuori controllo, che Ankara non può più pilotarlo e anzi lo stato islamico rischia di prendere il potere ad Ankara.
Come può dire una cosa simile?
In Pakistan abbiamo visto una deriva analoga. Islamabad ha sostenuto i terroristi che agivano nel Kashmir indiano, infiltrati da agenti dei servizi segreti pakistani. Questi terroristi poi sono stati “rigirati” alla bisogna in Afghanistan contro i russi, ma alla fine gli infiltrati si sono convertiti e hanno contro-infiltrato i servizi pakistani. Risultato: il Pakistan in qualche anno è diventato semi-comandato, influenzato, ricattato da forze in combutta più o meno aperta con il peggiore terrorismo islamico.
E in Turchia potrebbe rapidamente succedere la stessa cosa se Erdogan non riesce a raddrizzare la barra districandosi dall’Isis.
Sì. La verità è che il terrorismo ideologico-religioso nel lungo periodo non è controllabile e finisce sempre per mangiarsi i suoi manovratori. A meno che i manovratori non prendano il coraggio a due mani ed eliminino i loro burattini di un tempo. Oggi i pakistani stessi vogliono tornare indietro da quella strada ma hanno grandi difficoltà.
Un quadro molto pessimista.
Berlino dimostra che i terroristi sono più deboli, che nell’antiterrorismo ci sono stati progressi e che questi vanno proseguiti. Ma l’attentato in Turchia mette Erdogan con le spalle al muro. L’uomo che ha ucciso l’ambasciatore russo aveva lavorato con la scorta di Erdogan. Vuol dire che Erdogan non può più fidarsi della sua scorta. Quindi o reprime duramente l’Isis e cambia decisamente rotta, o il terrorismo lo farà fuori, com’è successo a non pochi sui colleghi pachistani.
Eppure la reazione successiva al golpe di luglio avrebbe dovuto far pensare ad un paese più sicuro. Scopriamo il contrario Quali considerazioni geopolitiche impone tutto ciò?
Erdogan ha cercato di usare le sfide che aveva davanti per agitare fantasmi populistico-para-religiosi. La verità è che nella sfida geopolitica mediorientale la Turchia non può pensare di tornare alla sua eredità imperiale ottomana, anche perché gli ottomani erano un impero multietnico con ebrei praticanti, greci ortodossi e italiani convertiti come gran visir, mentre la Turchia attuale è figlia di Ataturk, prepotentemente turca. Quindi la Turchia deve ritrovare la strada del laicismo e addivenire a un accordo politico con gli altri protagonisti della regione.
Offrendo che cosa?
Può portare in dote rapporti particolari che ha con sauditi e qatarini ma anche con Israele. Ma è necessario riscoprire quel secolarismo sano che per molti anni è stato padre dell’anima più forte della Turchia e che Ankara ha via via represso.
Come sono visti dalla Cina i rapporti ultimamente problematici della Turchia con l’Europa?
C’è grande preoccupazione per le criticità della Turchia sia verso l’Europa sia verso i suoi vari vicini orientali. La Turchia rischia di essere un tappo dello sviluppo regionale ed eurasiatico, e non un facilitatole. Non solo: il terrorismo islamico è un elemento sociale e politico che sta erodendo dal di dentro, col razzismo, e dall’esterno, con le la pressione dei profughi, il tessuto sociale e politico europeo. Se questi elementi non sono sanati rapidamente l’Europa come l’abbiamo conosciuta rischia di saltare, smettendo di essere una sponda del commercio asiatico. A quel punto tutti gli equilibri mondiali diventano molto più precari.
Ma Perché la Cina è così interessata a quanto accade nella sponda orientale del Mediterraneo?
La Cina capisce che parte della sua storia è la via della seta, la strada del commercio transcontinentale attraverso l’Eurasia. Ma questa funziona solo se c’è pace nella regione. Un riposizionamento della Turchia nella regione potrebbe poi diminuire la necessità di coinvolgimento russo o iraniano in Siria. Se ci fosse più pace nella regione naturalmente questo sarebbe utile alla Cina per la sua strada verso l’Europa e il Mediterraneo. Le strade si attraversano solo quando c’è pace. E se ci sono strade si diffonde il benessere, che rafforza la pace ed elimina un forte incentivo alla guerra.
Cosa si deve fare?
Partire dai dettagli: capire bene la rete del terrorismo europeo, non solo a livello nazionale. Ma la repressione europea non basta. Se non si riporta un equilibrio politico in Medio oriente e non si smette di dare sponde di qualunque tipo a Isis o al Qaida, il terrorismo islamico è destinato a crescere. E a riportare al potere in Europa pericolose forze razziste e parafasciste.
(Federico Ferraù)