Si è aperta ieri a Doha la conferenza che riunirà i rappresentanti delle diverse forze di opposizione al regime alawita di Bashar al-Assad. L’iniziativa era stata annunciata la settimana scorsa dal Segretario del Dipartimento di Stato americano Hillary Clinton, parlando alla stampa a margine di un incontro con il Presidente croato Josipovic. Secondo i piani statunitensi, la conferenza di Doha dovrebbe individuare un nuovo interlocutore politico capace di interporsi tra l’Esercito Libero Siriano (ELS) e la comunità internazionale. La Clinton ha tuttavia posto delle condizioni ben precise. Il Consiglio Nazionale Siriano (CNS) dovrà basarsi stabilmente in Siria (probabilmente in una località del nord del Paese già liberata) e soprattutto dovrà includere membri del movimento rivoluzionario che sta combattendo in Siria.
“L’opposizione non può essere rappresentata da persone con molti buoni attributi ma che, in molti casi, non vive in patria da 20, 30 o 40 anni. Deve esserci una rappresentanza di coloro che sono oggi al fronte, che combattono e muoiono per la propria libertà”, aveva affermato la Clinton la settimana scorsa. “Il CNS non può più essere il leader visibile dell’opposizione. Può fare parte di una coalizione più ampia” ma a condizione che questa includa “le persone che ora sono in Siria e le cui voci devono essere ascoltate”. Sebbene la rielezione di Obama per il secondo mandato presidenziale lasci aperta l’ipotesi di un maggiore impegno statunitense nella regione mediorientale, la riorganizzazione dell’opposizione siriana “suggerita” da Washington ha suscitato polemiche tra i membri del CNS. L’impressione è che il tentativo di dare una svolta all’impasse siriano si traduca in un fallimento prima ancora che la conferenza entri nel vivo.
Mercoledì scorso, ad Amman, i membri del CNS hanno infatti bocciato un piano di riorganizzazione del Comitato proposto da Riyad Seif, colui che gli Stati Uniti avrebbero individuato come nuova guida dell’opposizione. Il piano includeva una lista con i nomi di coloro che avrebbero composto la nuova leadership dell’organizzazione. La situazione resta estremamente fluida e all’entusiasmo che aveva immediatamente seguito il discorso della Clinton si è rapidamente sostituita l’incertezza sul destino del popolo siriano.
Ciononostante, gli ultimi giorni hanno messo in luce alcune posizioni già latenti da diverso tempo. Dal punto di vista degli Stati Uniti il rischio da scongiurare è quello di uno scollamento insanabile tra l’ELS, che da mesi combatte in prima linea fronteggiando i pesanti bombardamenti delle forze regolari di Assad, e l’anima “politica” dell’opposizione siriana dislocata nelle principali capitali europee e in negli Stati Uniti.
Sin dallo scoppio degli scontri armati in Siria, il CNS si è presentato al mondo come l’interlocutore politico ideale in quanto portavoce delle volontà dei siriani che avevano imbracciato le armi contro il regime baathista al potere da oltre 40 anni. Di più, il CNS ha tentato fino ad oggi di porsi come organo politico coerente e rappresentativo della rivoluzione, capace di delineare gli obiettivi a lungo termine dell’opposizione siriana e programmando la futura Siria post-baathista. Le parole della Clinton mettono ora l’intellighenzia siriana davanti ad una scelta: impegnarsi a serrare i ranghi dell’opposizione superando ogni tipo di frattura settaria esistente al suo interno, e diventando così paladini dello spirito riformatore della “primavera araba” in Siria, o d’altra parte riconoscere il proprio fallimento. Il dilemma è, ovviamente, solo apparente, dato che sia gli Stati Uniti che il CNS hanno estremo bisogno l’uno dell’altro.
Nei piani della Casa Bianca la deriva radicale e islamista della rivolta siriana deve essere contingentata e gradatamente soppiantata da un’anima più “gentile” o laica dell’opposizione. Il nome nuovo fortemente caldeggiato dalla Casa Bianca, Seif Riyad, rappresenta l’imprenditore della classe media siriana, protagonista di anni di attiva opposizione alla chiusura economica e politica del regime baathista e, dato essenziale, non proveniente dalle università e dai salotti intellettuali occidentali. Ben altra cosa rispetto ai membri del CNS già appartenenti agli ambiti accademici occidentali e relegati all’esilio per anni in Europa o negli Stati Uniti. Sebbene il CNS resti quindi la piattaforma politica privilegiata per canalizzare insieme le forze sane dei ribelli, è chiaro come gli Stati Uniti cerchino per il breve periodo anche un leader carismatico, capace di raccogliere il necessario consenso per le strade delle città e delle campagne siriane. Ciò permetterebbe nel lungo termine di basare su fondamenta più solide il futuro progetto politico per la Siria del domani. Dislocare il CNS direttamente in Siria avrebbe quindi un elevato valore simbolico e politico allo stesso tempo facendo da contraltare alla propaganda islamista.
Incarnando le istanze della etnicamente e religiosamente variegata e spesso conflittuale società siriana, l’immobilismo decisionale rischia di screditare l’affidabilità del CNS agli occhi degli Stati Uniti. Ulteriore preoccupazione per Washington è che l’attuale scenario libico possa un domani replicarsi a Damasco. A Tripoli infatti la classe politica post-bellica è vista da chi ha combattuto contro Gheddafi come auto-referenziale e non rappresentativa. Il risultato è che i capi-tribù e le milizie libiche continuano a rifiutarsi di deporre le armi per timore di vedersi spodestare dei loro meriti conseguiti combattendo sul campo.
Così come nel caso del CNS, anche il Consiglio di Transizione Nazionale Libico è composto in buona parte da imprenditori di educazione occidentale ed intellettuali, i quali si sono materializzati in patria al termine del conflitto, dopo decenni di esili forzati. Al loro ritorno, gli attriti con i capi delle milizie erano dunque inevitabili e ancora oggi non è prevedibile come e quando la Libia possa risolvere i problemi di legittimazione della propria classe politica. La comunità internazionale sa bene che la Siria del domani non potrà permettersi di impantanarsi in simili conflitti interni data la sua natura multietnica e multiconfessionale che la vede incastonata in un’area strategicamente delicatissima.
L’opposizione siriana ha del resto altrettanto bisogno di mantenere salda l’investitura di interlocutore politico privilegiato da parte degli Stati Uniti e della comunità internazionale. Le reazioni discordanti al progetto statunitense da parte di alcuni membri del CNS sono tuttavia indicative dell’aspro dibattito interno ad un organo che probabilmente è investito di una responsabilità maggiore di quella che effettivamente possa assumersi. Tra chi legge l’intervento del Segretario del Dipartimento di Stato come un sopruso e un irricevibile aut-aut da parte di Washington, e chi mostra un assenso rassegnato all’ineluttabile destino di trasferirsi “al fronte” in Siria inglobando nuovi membri nel CNS. Le ripercussioni, se avallate ufficialmente all’incontro di Doha, potrebbero essere imprevedibili e le incognite restano più delle certezze. Come coordinare il braccio armato dell’ELS e l’intellighenzia riunita attorno al CNS? Quali margini di successo potrebbe avere il proselitismo dell’opposizione filo-occidentale al cospetto degli islamisti? E in caso di fallimento, non potrebbe verificarsi un esacerbarsi degli scontri? Per non parlare del nuovo fronte che nel frattempo si sta aprendo nel nord del Paese al confine con la Turchia (e fomentato dal divide et impera propugnato da Bashar al Assad) tra l’ELS e i curdi che aspirano alla secessione. Voci provenienti dall’opposizione siriana vogliono che proprio in quella regione si basi il futuro quartier generale del CNS.
Le parole della Clinton sono dunque destinate ad alimentare il fuoco delle polemiche e verosimilmente le divisioni interne al CNS rischiano di minare ulteriormente il dialogo tra le forze d’opposizione al regime alawita. Nonostante i rischi conseguenti alla possibile “delocalizzazione” in Siria dell’opposizione politica e all’apertura ai membri dell’opposizione basati in patria, la proposta lanciata dalla Casa Bianca lascia intravedere un tentativo statunitense di mettere in piedi una strategia dalla duplice finalità. Ottenere nell’immediato il necessario consenso popolare e creare i presupposti per la stesura di un progetto politico coerente per la Siria post-baathista estromettendo le forze islamiche più estremiste.