È ricorrente sulla stampa europea, specie in Italia, lo stupore per come le cose funzionino bene in Svizzera, dal punto di vista economico e sociale. Non si può negare che ci sia del vero, ma non è tutto oro quello che luccica. Questa volta è la situazione occupazionale che lascia stupefatti gli osservatori: si veda il sito di Repubblica del 21 maggio. Il dato di aprile sulla disoccupazione è in effetti molto basso: il 2,7% sull’intero mercato del lavoro della Confederazione è una percentuale quasi fisiologica; difficile scendere al di sotto. Parlare di “pieno impiego” è però un po’ frettoloso.
Vi sono migliaia di disoccupati che hanno terminato il periodo di 14 mesi a beneficio dell’assicurazione disoccupazione e che, per quanto siano alla ricerca di un impiego, non vengono registrati dalle statistiche ufficiali. In Ticino si calcola che la percentuale del 2,8% raddoppia qualora si considerino anche i disoccupati di lunga durata. Quel che non si capisce, d’altra parte, è dove Repubblica abbia raccolto i dati in cifre assolute, secondo i quali il numero degli impieghi disponibili sarebbe nettamente superiore a quello dei disoccupati. La realtà è ben diversa: 194.060 le persone senza lavoro, mentre i posti vacanti annunciati presso gli uffici di collocamento sono 14.431.
Ma andiamo oltre le cifre per chiederci le ragioni di questi cieli sereni sul mercato del lavoro elvetico e per capire perché, nonostante il bel tempo, vi sia oggi un po’ in tutto il Paese, ma specialmente nei Cantoni di frontiera, un grossa quota di cittadini svizzeri imbronciati e preoccupati per il futuro lavorativo proprio e dei propri figli (disagio sul quale prosperano alcune forze politiche, per intenderci quelle “sovraniste” e “populiste”). Il successo dipende da solide basi strutturali: una democrazia federalista che rende talmente vicini al cittadino i luoghi del potere da ridimensionare la disaffezione alla politica, ovunque diffusa in Occidente; la certezza del diritto, fondamentale per le aziende; un sistema scolastico attentissimo alla formazione professionale; eccetera. Si aggiunga il recente rientro del franco svizzero in parametri di cambio con euro e dollaro assai favorevoli alle industrie di esportazione elvetiche. D’altro canto, c’è una vera “invasione” di manodopera dai Paesi confinanti, soprattutto dall’Italia.
Non si tratta più solo – questa è la novità – di manodopera poco qualificata, ma sempre più di personale qualificato o molto qualificato. E siccome gli svizzeri applicano con rigore teutonico i trattati bilaterali con l’Ue in materia di libera circolazione delle persone, dall’Italia partecipano ai concorsi fior di professionisti e intellettuali che spesso “soffiano” il posto ai concorrenti locali. Accade nel mondo bancario e, in ambito pubblico, nelle amministrazioni, nella scuola e nell’università. Di qui il suddetto malumore.