L’amministrazione Obama è ai ferri corti con la Cina? Dopo la vendita di armi a Taiwan e il «caso Google», il presidente americano ha dichiarato che vedrà il Dalai Lama, la guida spirituale del Tibet, ma Pechino non l’ha presa bene: si guardi, il presidente Usa, dall’incontrare la guida di un popolo per il quale rivendica un regime di autonomia su un territorio, il Tibet storico, pari ad un quarto del territorio cinese. Condizioni che il governo cinese non può in alcun modo accettare. Poco importa che il Dalai Lama continui a ripetere di non essere separatista. Obama «danneggerebbe la fiducia e la cooperazione tra i nostri due paesi» ha detto Zhu Weiqun, viceministro, che ha aggiunto malignamente: «come potrebbero gli Usa venire fuori dalla crisi economica?». Le ritorsioni sono dunque dietro l’angolo? In realtà, secondo Francesco Sisci, corrispondente de La Stampa a Pechino, la situazione è seria, ma non grave.
I rapporti bilaterali tra Usa e Cina sono diventati improvvisamente a rischio di rottura?
Ieri in realtà la situazione è tornata sotto controllo. Il portavoce dell’ufficio stampa del ministero degli Esteri ha parlato di «irritazione» per l’incontro tra Obama e il Dalai Lama. Una replica di prammatica, dopo quella esagerata del viceministro che ha minacciato in buona sostanza sanzioni e ripercussioni economiche. Da un mese a questa parte le reazioni cinesi possono sorprendere, ma il motivo è che Pechino si è sentita sotto attacco.
Parte tutto dal caso Google e dalla vendita di armi a Taiwan?
Direi piuttosto dal vertice di Copenhagen. Usa e Cina sono entrambi andati al vertice sicuri che avrebbero incassato un successo. Quando l’accordo è saltato, Obama si è sentito tradito, ma lo stesso vale per la Cina. I cinesi sono andati a Copenhagen annunciando motu proprio un taglio delle emissioni del 40 per cento entro il 2020 e la volontà di perseguire gli obiettivi senza aiuti. Una simile riduzione è una cifra enorme. Ma quando la stampa internazionale li ha accusati di aver fatto saltare l’accordo, si sono sentiti traditi. Poi ci sono stati due episodi che hanno contribuito ad avvelenare l’atmosfera.
Quali?
Il primo la condanna a undici anni del dissidente Liu Xiaobo. E il secondo la condanna a morte del trafficante di droga inglese di origine pakistana. Questo ha peggiorato il clima e dato inizio alla polemica su Google, con le bordate di Hillary Clinton sulla libertà di informazione. Poi il segretario di stato Usa ha preteso dalla Cina l’applicazione delle sanzioni contro l’Iran. L’annuncio della vendita di armi a Taiwan è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Per arrivare infine alla vicenda del Dalai Lama.
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Esatto. A quel punti il governo cinese si è lasciato prendere la mano reagendo in modo scomposto e con eccessiva durezza. Senza rendersi conto di non poter pretendere che il presidente degli Stati Uniti faccia quello che vuole la Cina..
Nel suo primo viaggio in Cina Hillary Clinton aveva dichiarato la disponibilità Usa a parlare di tutto ma senza mettere in discussione i rapporti economici. Perché Obama ha deciso di riaprire il fronte dei diritti umani?
Obama si è trovato a gestire una sconfitta politica grave (le elezioni in Massachusetts, ndr), con la riforma sanitaria in bilico e da riaggiustare secondo i desiderata dei repubblicani. Ora come non mai ha bisogno di portare a casa un risultato politico. Niente ambiente, niente riforma sanitaria, niente Corea, niente Iran. Rimaneva la strada delle pressioni sulla Cina e del rispetto dei diritti umani.
Al prezzo davvero molto caro di rischiare una spaccatura?
In realtà Stati Uniti e Cina sanno fare bene politica sono consapevoli che una crisi nei rapporti bilaterali non conviene a nessuno dei due. Le ultime dichiarazioni della Cina sul caso del Dalai Lama sono più morbide e se bene interpretate mostrano chiaramente la volontà di riportare nell’alveo della buona misura politica i rapporti bilaterali. Le stesse dichiarazioni del portavoce della Casa Bianca sono state misurate: «consideriamo il Tibet parte della Cina» ha specificato.
Che parte gioca la crisi economica?
La crisi è globale, ma quella dell’America è molto più grave. Il debito estero degli Usa è il 90 per cento del Pil, quello della Cina è il 5 per cento del Pil. La Cina ha concluso l’anno con una crescita del 9 per cento, il resto del mondo rasenta lo zero. Sono numeri gonfiati? Può darsi, intanto però l’economia cinese tira e traina tutto il sudest asiatico. Non secondo il governo cinese ma secondo il Fmi oltre il 50 per cento della crescita globale è stato creato dalla Cina. La Cina è il maggior detentore estero di titoli di debito pubblico Usa. Conviene ad entrambi che il «G2» ne esca rafforzato.
Torniamo al caso del Dalai Lama, simbolo della questione irrisolta della negazione dei diritti umani in Cina. Ci sono passi avanti?
Per dichiarazione da parte del Dalai Lama – e non secondo i cinesi – ci sono stati dei progressi. È un risultato indipendente e non è frutto dell’azione di parte americana. La novità è che governo cinese e Dalai Lama si sono parlati senza nessuna costrizione. Sembra che i cinesi abbiano accettato di parlare con gli inviati del Dalai Lama delle prospettive culturali e religiose del Tibet. Visto che si partiva da sotto zero, sono ammissioni importanti e significative.
Se mettiamo da parte il caso Tibet, nel quale il problema religioso si intreccia con quello dell’autonomismo politico, Pechino continua a temere l’interferenza della religione vista come agente di instabilità politica per il governo e lo stato?
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Il partito vuole che il clero in generale, di qualsiasi religione esso sia – buddista, lamaista o cattolico – abbia un’educazione politica. Non è indottrinamento. La si potrebbe chiamare «educazione civica».
Il senso di questa educazione civica non è quello di sottoporre l’autorità religiosa al benestare del partito comunista?
No, perché nel 17mo congresso del partito è stato introdotto nella costituzione un articolo che dice che il partito non si occupa e non entra in questioni religiose. Rispetta il ruolo che personalità religiose hanno nella società, le quali devono però capire come funzionano lo stato e la politica cinesi. In termini astratti è un’offerta ragionevole, poi bisogna sempre capire come questo principio viene applicato. Può esserlo anche in maniera brutale, eccessiva.
Cioè persecutoria?
Il partito risponde che anche un corpo di polizia in uno stato democratico può essere persecutorio. Ma è diverso accusare il questurino e accusare la legge. A livello di principio la legge non è antilamaista o antibuddista o anticattolica.
Lei ha citato Liu Xiaobo, leader di Carta 08 arrestato. Qual è la linea della Cina verso i suoi numerosi dissidenti interni?
Di repressione. Però oggi la repressione contro i dissidenti è assai minore che dieci anni fa. Liu Xiaobo è stato arrestato e condannato non tanto per quello che ha detto, ma per il fatto di aver creato quel manifesto per i diritti umani in Cina. I firmatari sono 4mila ma a parte lui nessun altro è stato arrestato e condannato. Non significa che la Cina sia un paese liberale, però c’è più libertà oggi rispetto a ieri.
Qual è lo scenario che si sente di delineare?
La polemica è destinata a rientrare. Obama ha bisogno che la Cina gli frutti un risultato politico nei prossimi due o tre mesi. E non può essere semplicemente la rivalutazione del renminbi sul dollaro, perché è già deciso che ci sarà, il problema sarà solo quando. Lo farà a sorpresa, per evitare speculazioni. Sul fronte della politica estera, l’altro giorno il Washington Post ha assicurato che la Cina appoggerà le sanzioni l’Iran. Ma la Cina è scettica sulla bontà delle sanzioni. Forte della sua esperienza, dice che se si porta un paese in un’area di libero scambio i risultati potrebbero essere sorprendenti. Questo vale innanzitutto per la stessa Cina. Trent’anni fa era nel buio del comunismo, ma oggi grazie ad una politica illuminata anche di parte americana è un paese più libero e più liberale.