L’Amministrazione del neo-Presidente americano Barack Obama non avrà molto tempo per scaldare i motori. I fatti di politica estera impongono azione prima che riflessione, anche se in queste settimane c’è stato modo di ascoltare le interessanti posizioni espresse prima dal Segretario di Stato Hillary Clinton, quindi dallo stesso Obama, rispetto all’atteggiamento Usa di fronte alle principali minacce alla sicurezza.
La nomina, inoltre, di due inviati presidenziali per le questioni del Vicino Oriente e dell’Afghanistan e Pakistan sono una segnale di rinnovata attenzione per la diplomazia proattiva.
In questo solco potrebbe inserirsi anche la trattazione del dossier più delicato, quello del nucleare iraniano. George W. Bush aveva semplicemente accantonato il dossier negli ultimi mesi, pur tenendo ben presente la minaccia di un Iran atomico. L’opzione militare è stata scartata fin dall’inizio, anche se rimane valida la possibilità di un “intervento chirurgico” sulle centrali iraniane.
Ma il vero cambio di rotta si è avuto nelle parole espresse da diversi membri dell’Amministrazione, che hanno parlato di un “direct engagement”, di diplomazia diretta nei confronti di Teheran. Fino ad oggi i contatti diplomatici non sono mancati; ma sempre ospitati in “terreno neutro” o per interposta persona. È il caso del gruppo di contatto europeo, cui Washington ha demandato in questi anni una delicata negoziazione, senza esiti significativi. Ora l’America parlerà direttamente con gli emissari iraniani, nella speranza che ciò porti al raggiungimento del vero obiettivo degli ayatollah: il riconoscimento del ruolo di potenza regionale per l’Iran.
Un Iran che ha sofferto negli ultimi decenni l’ascesa geopolitica in Medio Oriente dell’Arabia Saudita, campione dell’Islam sunnita, e che invece oggi sa di giocarsi la partita più delicata. Certo è che la contropartita di un dialogo diretto dovrebbe essere la richiesta di sospendere qualsiasi finanziamento o supporto ai gruppi del terrorismo, con particolare riguardo ad Hamas e Hezbollah.
Molto dipenderà anche dall’esito delle prossime elezioni presidenziali in Iran, per le quali Ahmadinejad lavora ormai da tempo ma che potrebbero riservare sorprese. Il presidente in carica sarebbe oramai stato scaricato dalla Guida Suprema, a causa delle ripetute e nefaste sollecitazioni mediatiche e diplomatiche cui ha costretto l’establishment di Teheran. Ma Ahmadinejad rimane un punto di riferimento per i guardiani della fede, i pasdaran, e per alcune élite arabe eterodosse. La sua uscita di scena potrebbe non necessariamente consegnarci un Iran più conciliante.
Ecco perché, fatta salva la speranza di una leadership iraniana più e meglio illuminata di quella attuale, anche l’America sa di doversi affidare al realismo, al principio per il quale “occorre un bastone più grande per una carota più grande”.
La strada della diplomazia è aperta e sarà, come sempre, lunga da percorrere. Ma nessuno a Washington ha intenzione di scartare pregiudizialmente l’ipotesi dell’utilizzo dello strumento militare. L’Iran sarà uno dei banchi di prova per la nuova Amministrazione. Ma è credibile questo ricorso ad un ventaglio più ampio di opzioni rispetto al passato; fuori però dall’illusione che l’America non farà più la guerra quando sarà necessario.