Mi chiamo Stefania, da 11 anni vivo in Ecuador a Quito e lavoro per Avsi. Lavoriamo in una “invasione” di nome Pisulli, un quartiere marginale della capitale, Quito. Pisulli è situato su di una collina a circa 3000 metri di altezza, “invasa” (all’inizio in un modo anche violento) da migliaia e migliaia di abitanti che in questi ultimi 25 anni hanno raggiunto la capitale provenendo da tutto il resto del paese, occupando questi terreni che erano abbandonati, per costruire lì la loro casa e per cercare un lavoro nella città.
La gente di Pisulli vive in abitazioni molto piccole, nella maggior parte dei casi la famiglia allargata (figli, genitori, nonni, zii) vive insieme, in case di cemento e in alcuni casi di legno e spesso senza i servizi di base necessari (fognature, strade asfaltate, telefono e in alcuni casi senza acqua né luce). In un quartiere di circa 15mila abitanti accompagniamo quotidianamente (attraverso il sostegno a distanza di Avsi), 500 famiglie e i loro figli, dai bambini piccoli negli asili – alcuni dei quali nelle case – ai bambini delle elementari nel doposcuola, dai giovani nel tempo al di fuori della scuola fino e soprattutto ai genitori, accompagnandoli in quello che è il loro compito di educare. Spesso infatti in queste situazioni disagiate è facile pensare di non essere capaci di educare i propri figli o di non averne i mezzi e gli strumenti necessari.
Sono quartieri dove la violenza è molto diffusa, specie sulle donne e tra i giovani, insieme alla droga e alle armi. Ma soprattutto è diffusa la violenza nei rapporti più quotidiani, quella di uomini abbandonati alle reazioni e all’istinto e alla ricerca di espedienti per vivere la giornata, senza progetti e speranze per il futuro. Quella violenza che nasce molto spesso dalla delusione della vita in città, che è più complessa di quanto uno si immagini, lasciando la propria terra e le proprie radici, e che genera una profonda sfiducia e solitudine tra le persone.
Quando sono arrivata lì nel 2003 io avevo già lavorato in Romania con i “poveri” e pensavo di sapere qualcosa della vita e della povertà, facilitata, pensavo io, dal fatto di essere cristiana e cattolica, dall’avere già lavorato per Avsi anteriormente, dal fatto di essere europea e senza dubbio dal fatto di avere le risorse economiche, cosa che sempre fa sentire un po’ “superiori”.
Pochi mesi dopo che ero a Quito ho conosciuto Amparito e insieme a lei le prime donne di Pisulli che iniziarono a lavorare con noi. Incontrandole ricordo che ero colpita dal loro interesse e dalla loro apertura verso di me e da quello che proponevo, cioè il lavoro con le famiglie. Vedevo in loro una umanità molto genuina, trasparente, curiosa, senza schemi né pregiudizi in mezzo a tutto il disagio anche materiale e al dolore che vivevano.
Tutto per me, lì, incontrandole, iniziò a cambiare. Ricordo un giorno che un nostro grande amico venne a visitarci a Pisulli per conoscerle (allora eravamo solo 5, adesso siamo 40 e quasi tutte donne del quartiere con storie dolorose e drammatiche alle spalle); Carras (questo il nome di quell’amico) iniziò a parlare di Gesú e della vita e loro sembravano capire, rimanevano stupite e facevano domande. Io alla fine di quell’incontro mi sono avvicinata e gli ho detto “Guarda, Carras, io non ci posso credere che loro possono capire e vivere lo stesso che vivo io, vedi loro non hanno studiato, sono un po’ sentimentali e noi invece cosí attaccati alla ragione e di pochi sentimenti, e poi qui in Ecuador la vita é cosí diversa…”. Ma lui mi guarda e mi dice “Guarda Stefi, queste persone sono come i primi che incontrarono Gesú, erano pescatori, non avevano studiato, ma la loro vita era cosí piena di dramma che avevano bisogno di quell’Uomo per vivere. Magari non capivano tutte le parole che Lui diceva, ma alcune di quelle parole rimanevano fisse nella loro testa ed erano sufficienti per illuminare tutta la loro vita”.
Io sono stata fulminata da quel breve dialogo e lì ho iniziato a capire che c’era qualcosa di nuovo ed importante da scoprire per la mia vita e il mio lavoro. Cioè la competenza che avevo, le conoscenze, l’esperienza che avevo accumulato, le risorse materiali a disposizione non erano piú sufficienti per spiegare la mia presenza lì; e non era neanche la cosa più importante. Ho iniziato a stare con quelle donne con il desiderio di imparare da loro, perché vedevo che in loro c’era un coscienza del bisogno (non solo materiale ma interiore), una umiltà e un desiderio di imparare tutto (dal lavoro alla vita tutta), un senso drammatico della vita (con insieme un gran senso del sacrificio) e una semplicità nel riconoscere il vero quando glielo si metteva davanti, che io non avevo.
Insomma, come una genuinità dell’umano che risplendeva davanti ai miei occhi ma che forse (pensandolo bene adesso) aveva bisogno di essere tirato fuori, cioè aveva bisogno di essere come più cosciente in loro, in quelle donne, ed io per quello che avevo incontrato e mi era stato dato nella vita − il cristianesimo in un forma viva e che c’entrava con la vita − potevo aiutare a farlo, potevo cioè aiutarle ad essere più coscienti della loro umanità e della loro grandezza che era tutta dentro di loro, perché il valore è dentro di noi, non è fuori e non dipende da quello che abbiamo. Ma la scoperta piú grande per me di quei primi mesi è stato l’accorgermi che quello che avevo incontrato io, il cristianesimo in una forma viva, ancora non lo possedevo, non era totalmente mio.
Pensavo di averlo capito come si capisce un discorso o una teoria, ma da subito, stando con loro, mi resi conto che invece dovevo continuare ad impararlo come vita e imparandolo poteva ancora cambiare me e loro. E lo potevo imparare proprio lí, davanti e insieme a quelle persone.
Se c’è una cosa che posso dire con certezza è che in questi anni ho visto la gente cambiare, ho visto queste persone cambiare e insieme a loro, i loro figli, i loro mariti, le loro famiglie e i vicini. Ho visto persone poco a poco rinascere, persone non piú schiacciate dalla circostanza in cui vivono né dalle storie dolorose del loro passato.
Ecco, questo è il cambiamento che ho visto e vissuto, come desiderio di essere sempre più se stessi, noi stessi, cioè ciò per cui siamo stati fatti ed esistiamo nel mondo, per poter dare anche noi un contributo buono nel mondo.
Ma senza un incontro umano che ci comunica uno sguardo buono su di noi e che ha il sapore della Misericordia e del perdono, questo è impossibile.