A cento giorni dal voto per le presidenziali Usa, il candidato repubblicano Mitt Romney è riuscito a scalare i dieci punti di distacco che a marzo lo separavano da Barack Obama. Tutti gli ultimi sondaggi danno gli sfidanti in una situazione di parità, e le prossime settimane saranno decisive per stabilire quale sarà l’inquilino della Casa Bianca per i prossimi quattro anni. Ilsussidiario.net ha intervistato Alberto Simoni, vice caporedattore Esteri de La Stampa e responsabile del sito “Usa 2012” collegato al quotidiano di Torino.
Da quali segnali si può prevedere che cosa accadrà di qui a fine ottobre?
Un primo elemento è quello della raccolta fondi, che ci può aiutare a capire da che parte sta andando la campagna elettorale e quale direzione prenderà. Da questo punto di vista in giugno e in luglio Romney è andato molto bene, mettendo in cassa parecchi milioni di dollari e soprattutto di più di Obama. Il saldo tra entrate e somme spese per la campagna elettorale, rappresenta un campanello d’allarme per il presidente.
In che senso?
I soldi che ha a disposizione sono inferiori a quelli di Romney e soprattutto sono molti di meno rispetto a quelli che aveva nel 2008. Obama ha avuto dei problemi, sta conducendo una campagna elettorale difficile e quindi in alcuni Stati sta spendendo più del previsto, in particolare per conquistare la fiducia di alcune categorie di elettori che quattro anni fa erano dalla sua parte. Bisognerà vedere se questa campagna permetterà a Obama di recuperare, o se sarà costretto a continuare a spendere somme così ingenti fino alla fine.
Ma come farà a continuare a raccoglierle?
Non sarà facile, anche perché i big donor, cioè i principali finanziatori della Casa Bianca, molti dei quali stanno a Wall Street, hanno abbandonato Obama e anche i suoi sostenitori più accesi come Soros hanno donato alle casse del Presidente una cifra infinitesimale rispetto a quella del 2008.
Come voteranno i businessman di Wall Street?
Se nel 2008 avevano appoggiato Obama, anche per un rifiuto della politica di Bush, oggi la politica del presidente democratico non li ha convinti e starebbero tornando alla “casa madre” repubblicana, più sensibile ai temi dell’alta finanza e dell’industria.
Da che parte stanno invece la classe media e i meno abbienti?
La disoccupazione Usa è all’8,1-8,2%. Si tratta di un dato molto alto, tanto è vero che mai nessun presidente è stato rieletto con tassi di disoccupazione sopra al 7%. Non dimentichiamoci che in alcuni Stati Usa la disoccupazione è ancora più accentuata. Quindi bisogna capire se il ceto medio e quello popolare, che nel 2008 votarono per Obama, siano ancora convinti di riaffidare al presidente democratico la soluzione dei problemi economici.
A chi vanno le simpatie dei principali gruppi etnici?
Rispetto al 2008, Obama gode meno delle simpatie tra gli ispanici, che risultarono decisivi per la sua elezione. Si tratta di un terreno importante, perché gli ispanici rappresentano la minoranza etnica più numerosa negli Usa. Se fino a qualche anno fa era scontato che sarebbero stati elettori democratici, oggi ciò è un po’ meno sicuro.
Intanto Romney è alla prima tappa del tour che, dopo la Gran Bretagna, lo porterà in Israele e Polonia …
Prima di partire Romney ha tenuto un discorso chiave per la sua politica estera, in cui ha spiegato come vede l’America nel mondo e ha tracciato uno scenario simile a quelli tipici di George W. Bush. Romney del resto si è circondato di personaggi che vengono dall’ambiente dei Bush padre e figlio, cioè dal classico establishment conservatore. Il candidato repubblicano ha sottolineato che questo secolo sarà americano e che gli Stati Uniti non devono vergognarsi di esporre la loro potenza. Il suo è stato un attacco frontale a Obama, la cui politica estera è stata caratterizzata da un atteggiamento molto dimesso.
Che cosa intende dire?
Il presidente Usa ha proiettato nel mondo l’immagine di un’America che fa un passo indietro e che è sempre pronta al dialogo con gli altri. Questi non sono sicuramente gli Stati Uniti che molti americani vogliono, e Romney lo ha rimarcato, sottintendendo che l’America ha il diritto di decidere in prima persona quando e se utilizzare la forza e la linea dura. Obama in particolare ha condotto la guerra in Libia “seduto sul sedile posteriore”, lasciando il ruolo di protagonista a Francia e Regno Unito. A Washington probabilmente anche molti repubblicani non volevano la guerra, ma per i cittadini Usa nel momento in cui si scende in campo l’America deve guidare la partita.
(Pietro Vernizzi)