La Turchia pensava che con l’avvento del nuovo anno ci si potesse lasciare alle spalle quell’ondata di terrore e sangue che ha caratterizzato tutto l’andamento del suo 2016. Il cambio radicale di rotta politica del presidente Erdogan non è stato gradito a molti dei suoi sostenitori, compresa una frangia a lui fedele dell’esercito turco, nei quali cui le scuse pubbliche alla Russia e l’avvicinamento ad Israele hanno suscitato un certo risentimento.
L’abbandono della posizione più vicina allo stato islamico, con cui la Turchia condivide la fede islamica di confessione sunnita, ha irritato non poco diverse cellule attive che potrebbero aver preso l’iniziativa e colpito il vecchio socio in affari nel suo punto più vulnerabile: la sicurezza.
Mentre la popolazione turca era intenta a festeggiare il nuovo anno, sulle rive del Bosforo, al night club Reina affollato di gente, si è interrotto l’idillio con una serie di colpi d’arma da fuoco che si scoprirà poi essere un fucile d’assalto Ak-47. L’attacco è avvenuto verso l’1.30 ora locale, le 23.30 in Italia.
L’alone di mistero che circonda ogni attentato sul suolo turco si è riproposto anche questa volta, tanto che a distanza di due giorni non si è ancora avuta certezza da fonti ufficiali di quanti siano gli attentatori coinvolti. Social media “out of service” con blocco di Twitter e di Facebook per evitare la fuga di notizie.
Come spesso accade in questi casi, quelli che arrivano ai media occidentali sono più dei rumors che delle notizie vere e proprie, i quali vengono fatti trapelare in modo informale direttamente dai corridoi vicini all’ufficio del presidente Erdogan. Il ministero degli Interni parla di un solo assalitore fin da subito mentre alcuni testimoni e media locali fanno riferimento di tre individui che hanno fatto irruzione nel locale. Una delle poche certezze che arrivano direttamente dal ministero degli Interni è che il presunto assalitore sarebbe in fuga, attualmente gli sforzi delle autorità turche sono concentrati in quella che sta diventando una gigantesca caccia all’uomo estesa all’intero Paese.
Il richiamo all’ideologia degli attentatori si rispecchia spesso nel luogo dell’attentato, richiamandone gli obiettivi e le finalità.
In Turchia è rinomata e conosciuta la lotta interna del Pkk, storico partito dei lavoratori curdi, fortemente ostile alle politiche del presidente Erdogan. Nel caso del Pkk le mire politiche fanno sì che i suoi attentanti colpiscano obbiettivi strategici che rappresentano il potere turco in tutte le sue forme. Il Partito indipendentista curdo è solito attaccare stazioni di polizia o simboli del potere statale, uffici o ministeri per esempio, mediante autobombe o attacchi mirati. Lo scorso anno la loro firma ha minato la sicurezza del Paese diverse volte, sempre con modalità riconducibili alla lotta politica.
Nel caso dell’attentato di capodanno ci si trova davanti ad un luogo — il “Reina”, un rinomato nightclub sulle rive del Bosforo nel quartiere di Ortakoy nel distretto di Besiktas, parte europea di Istanbul — che si definisce “soft target”, riconducibile ad una strategia che mira a destabilizzare la popolazione civile nella sua quotidianità.
Questo tipo di considerazione è già stata fatta per l’attentato al teatro Bataclan di Parigi, dove il concetto di attacco asimmetrico con attenzione ai soft target è stato estremizzato. In molti hanno già sottolineato come questi due eventi siano simili, soprattutto nella conduzione dell’operazione. Le differenze da evidenziare però sono piuttosto forti anche se non immediatamente percepibili. Al Bataclan il commando che ha aperto il fuoco aveva una preparazione, seppur minima, derivata da un indottrinamento militare veloce ma mirato, con tecniche di occultamento e selezione degli obiettivi. Al Reina, a Istanbul, l’azione manca di professionalità e manifesta un comportamento legato al caso ed all’irruenza piuttosto che ad uno stile militare vero e proprio.
Le considerazioni sui soft target sono corrette, infatti entrambi i locali rientrano in quella defezione di obiettivo non sensibile che è quasi impossibile da mettere in sicurezza, rimanendo dunque vulnerabili e con una relazione costo-beneficio a favore dei terroristi.
Al momento dell’attacco, nel night turco, ci sarebbero state tra le 500 e le 600 persone, tutte civili, impegnate a festeggiare l’arrivo del nuovo anno senza badare a chi entrava od usciva dal locale. L’attentatore avrebbe prima ucciso un poliziotto e una guardia giurata all’ingresso, per poi entrare nel locale e iniziare a sparare a caso sulla folla. Uccidere gli elementi che possono fermare il piano terroristico è una delle prime azioni che si insegnano agli aspiranti terroristi e che leggiamo nei manuali di al Qaeda e dell’Isis. Questo aspetto dovrebbe far riflettere sul fatto che il terrorista potrebbe non essere un soggetto estraneo al settore militare, probabilmente un militante oppure un semplice indottrinato.
Rimane dunque aperta la pista riconducibile a qualche giovane militante dello stato islamico arruolato tramite internet.
Esplicativa è anche l’analisi dell’arma usata, un Kalashnikov o Ak-47, uno dei fucili d’assalto tra i più comuni al mondo ed anche più facili da reperire. In un locale così affollato un fucile è difficile da usare liberamente: ai primi spari le persone iniziano a scappare verso le uscite riducendo l’effetto dirompente dell’attacco a sorpresa. Se l’attentatore fosse stato collegato a cellule attive e strutturate si sarebbe optato per un attacco suicida più incisivo.
La tecnica utilizzata ed una rapida analisi di quelle che sono le principali minacce interne alla Turchia lascerebbero pensare ad un attentatore dello stato islamico con le modalità di affiliazione tipiche dei “cani sciolti”, diversa da quella dei “lupi solitari” a cui invece si rifaceva l’attacco del Bataclan.
Nonostante lo stato islamico abbia rivendicato la paternità dell’attentato il 2 gennaio, tramite la sua agenzia di stampa Amaq, rimangono alcuni dubbi sull’effettiva affiliazione dell’attentatore. L’Isis dispone nel Paese di un poderoso network dove elementi basati all’interno dei confini nazionali possono fare da sponda a complici in arrivo dal vicino territorio siriano, in cui la Turchia è impegnata militarmente.
I militanti godono di appartamenti sicuri, appoggi, reti di comunicazione e di un sistema logistico relativamente all’avanguardia, che permette loro di organizzare attentanti e tratte di miliziani rilevanti; per questo motivo, allestire un attentato più consono al target sarebbe stato facile, con risultati decisamente più incisivi.
Per la prima volta il comunicato di rivendicazione dell’Isis è stato diffuso anche in lingua turca oltre che araba, un caso che potrebbe non essere tale se si ripensa all’iter tortuoso che caratterizza i rapporti tra Turchia e stato islamico. Nel comunicato di rivendicazione, l’Isis definisce la Turchia “serva della croce” e riferendosi al suo ruolo nel conflitto siriano sostiene che “il governo di Ankara dovrebbe sapere che il sangue dei musulmani, uccisi dai suoi aerei e dalla sua artiglieria, provocherà un fuoco nella sua casa per volere di Dio”.
Quello che ancora non convince è l’attesa di due giorni per rivendicare l’attacco, anche se quanto dichiarato è rispondente al profilo dello stato islamico. Se l’attacco fosse stato pianificato come appare dal comunicato, la rivendicazione sarebbe arrivata entro le 12 ore e non dopo diversi giorni. Così come spesso accade anche su suolo europeo, vi è il dubbio che l’Isis voglia mettere sotto la sua responsabilità più attacchi di quelli che in realtà saprebbe gestire.
È più probabile che il terrorista fosse un musulmano scontento della nuova piega laica intrapresa dal presidente Erdogan e con una suggestione derivata dalla dialettica di Al Baghdadi abbia deciso di intraprendere la via del martirio. A dicembre 2016, nel suo primo messaggio, il nuovo portavoce dello stato islamico, Abu Hassan al Muhajir, aveva invitato i militanti a colpire la Turchia.
Rivendicando questo attentano lo stato islamico potrà sostenere la sua vendetta nei confronti della nuova politica estera turca in evidente rotta di collisione dopo la decisione di Erdogan di partecipare alle manovre militari per la ripresa di Mosul, in Iraq, e tentando così di influenzare le future decisioni di Istanbul per l’assetto regionale.
Dopo il recente attentato che ha portato alla morte l’ambasciatore russo in Turchia, il presidente Erdogan dovrà prestare attenzione non solo al desiderio di vendetta dell’Isis, ma anche ai rapporti fortemente instabili con le frange più radicalizzate del suo esercito.
Quello che doveva essere un nuovo anno sarà probabilmente l’ennesimo bagno di sangue.