La grande battaglia di Daara e Quneitra il 20 di luglio è terminata. Azioni militari decise — ma sopratutto la diplomazia ed il mancato appoggio statunitense (formalizzato ad Helsinki) — hanno consentito la riconquista di tutta l’area meridionale della Siria, in sole tre settimane. Alla completa riunificazione della zona si frappone solo l’ultima enclave dell’Isis, posta a ridosso del confine israeliano. Tuttavia, su di essa è già attivo un considerevole apparato militare, affiancato da gran parte delle milizie riconciliatesi con il governo centrale: ciò vuol dire che la liberazione completa della parte meridionale della Siria è solo questione di giorni.
Chiuso questo capitolo, resterà la problematicità dei due territori inseriti nelle ultime zone di de-esclation, ovvero la provincia di Idlib (detenuta da al Qaeda e da varie sigle estremiste islamiche) ed il cantone di Afrin, anch’esso detenuto da una vasta galassia di gruppi islamici al seguito dell’esercito turco.
La presenza di gruppi radicali islamici incorporati nell’esercito turco è paradossale. Ma lo è ancor di più se pensiamo che Ankara giustifica questa presenza come necessaria per lo svolgimento delle sue operazioni “anti-terrorismo” in terra siriana. La verità naturalmente è un’altra: la Turchia si è trovata improvvisamente sul groppone tutte le bande islamiste che aveva foraggiato per rovesciare Assad ed ora le impiega in questo modo, dato che non conosce un miglior utilizzo ed ha paura che tornino in patria, destabilizzandola.
Allora le ha impiegate in entrambe le grandi operazioni militari anticurde che ha compiuto finora sotto la sigla del Free Syrian Army (Fsa).
Ma evidentemente questa giustificazione non regge: è noto che l’Fsa (e cioè i ribelli moderati) in realtà non esistono più dalla fine del 2013. Perciò è chiaro che la sigla offre solo una copertura utilizzata per il “rebranding” di gruppi estremisti salafiti.
Infatti, sotto il marchio “Free Syrian Army”, con l’esercito turco, agiscono varie milizie, tra le quali la Nour al-Din al-Zenki (responsabile di numerosi massacri in Siria), la milizia Sultan Othman, una brigata turkmena e la divisione Sultan Murad (Sultan Murat Tümeni). In tutti i casi, esse abbracciano una visione ottomana pan-turca rivisitata che include la visione di un califfato sunnita sotto gli auspici del neo-ottomanismo.
Quindi la definizione moderata è inappropriata: la Divisione Sultan Murad è stata accusata di gravi violazioni dei diritti umani tra cui stupri, torture e deliberati attacchi contro i civili, soprattutto quelli di origine curda (vedi qui, qui e qui). Alla luce di questi elementi allora si capisce bene che l’obiettivo del ‘Ramoscello d’Ulivo” non era certo la lotta al terrorismo ma quello di evitare il ricongiungimento delle forze curde presenti ad ovest ed est della zona e —soprattutto — l’annessione di territori da sempre reclamati da Ankara (risalenti al periodo ottomano).
Questi fatti trovano ampi riscontri di cronaca. La contiguità tra la Turchia ed i gruppi più radicali si è vista perfettamente nell’operazione denominata “Scudo dell’Eufrate” (2017) giustificata con la necessità di creare una “safe zone” per chiudere le frontiere in funzione anti-Isis. E chiaro che l’intera operazione è stata nient’altro una finzione per giustificare l’invasione: le forze turche sono avanzate nei territori occupati dall’Isis senza combattere ed in molti casi i militanti dello stato islamico sono transitati tra le fila delle milizie irregolari filo-turche del Free Syrian Army semplicemente cambiando casacca.
Un grande numero di miliziani islamici — circa 25mila — è stato usato anche durante l’operazione militare denominata “Ramoscello d’ulivo”. Anche in questo caso, la forza “parallela” turca ha fatto ampio uso di turkmeni e arabi sunniti ed è stata sostenuta da reclute straniere.
E’ significativo il fatto che entrambe le zone, sia quella di Idlib quanto quella di Afrin, sono ben lontane dal processo di democratizzazione reclamato (anzi vanno in direzione diametralmente opposta) ma che ciò non impedisce che l’occidente le consideri “zone libere”. Fortunatamente però la dissonanza cognitiva della Comunità internazionale emerge in tutta la sua chiarezza nei report di numerose Ong (come Hight Right Watch), l’ultimo dei quali è stato pubblicato dalla Society for Threatened Peoples (Stp) martedì scorso. In esso si denuncia la pulizia etnica che Ankara ha messo in atto ai danni dei curdi e delle minoranze (cristiani e yazidi). Essa si avvale di varie tecniche per scoraggiare e far fuoriuscire i residenti autoctoni rimasti. Tra queste metodologie c’è quella dell’espropriazione dei beni: istituti legali gestiti dalle milizie islamiste filo-turche, stanno provvedendo alla distribuzione delle case e delle proprietà dei curdi agli arabi sunniti di importazione che altro non sono che le decine di migliaia di radicali arabi, tutti “armati e membri di vari gruppi islamisti”. Evidentemente, le proprietà passate forzosamente di mano sono quelle lasciate dai 250mila curdi fuggiti da Afrin (ed ora distribuiti nei campi profughi). Per quanto riguarda invece i pochi curdi che ancora si oppongono ai soprusi, essi reggeranno ancora per poco: Stp denuncia che essi negli ultimi 15 giorni hanno subito “circa 120 rapimenti, sette omicidi, dieci rapine e 27 razzie di proprietà”.
Di fronte a questi fatti, è amaro constatare come i principali media abbiano deciso di concentrare la propria attenzione altrove su fatti mediaticamente più spendibili, ma lontano dal girone infernale dove le brutalità si concentrano realmente. Sarà interessante nel prossimo futuro la loro reazione (e la reazione della Turchia), quando l’esercito siriano si indirizzerà ad attaccare la zona di Idlib, interamente occupata da fanatici terroristi islamici.