Lunedì scorso a Montréal ho partecipato alla sessione finale del congresso annuale dell’Associazione di Sociologia delle Religioni americana, dedicata all’Isis. Di ritorno da un viaggio in Iraq, il collega Mark Juergensmeyer, dell’Università della California, il decano degli studi accademici in materia di terrorismo ultra-fondamentalista islamico, ha proposto un’analisi della sconfitta militare dell’Isis in Medio Oriente.
Appare infatti ormai evidente che l’Isis in Siria e in Iraq è destinato a perdere la guerra e a scomparire come entità semi-statuale in grado di amministrare un territorio, riscuotere tasse, battere moneta e gestire l’economia e la sicurezza come se fosse uno Stato “normale”. L’Isis non ha mai avuto una vera possibilità di vincere la sua guerra sul piano militare. Ha contro i due maggiori eserciti del mondo — quello russo e quello americano — e altri due fra i primi dieci del pianeta, gli eserciti della Turchia e dell’Iran, per tacere delle povere ma motivatissime milizie curde.
La sua lunga sopravvivenza è stata assicurata solo dai veti incrociati e dalle rivalità — russi contro americani, turchi contro iraniani, curdi contro turchi — che hanno a lungo impedito ai suoi nemici di coordinarsi tra loro. Ma ora il tempo sta per scadere: l’Isis gestisce oggi tra Siria e Iraq un terzo del territorio che controllava nel 2015, e ne perde pezzi ogni giorno.
Che cosa succederà all’Isis dopo la sconfitta militare? Questa domanda spiega i fatti di Barcellona, forse l’episodio di Turku in Finlandia, forse anche quello di Wuppertal, nel Nordreno-Westfalia e certamente altri che seguiranno. Degli Stati canaglia sconfitti sul piano militare di solito rimangono solo nostalgici. È stato il caso, macroscopico, del nazismo, che non ha avuto colpi di coda, anche se continua a ispirare frange movimentiste persino negli Stati Uniti. Ma l’Isis è un ibrido: metà Stato, non riconosciuto da nessuno ma funzionante, e metà organizzazione terroristica.
Juergensmeyer prevede che le sue tre componenti prenderanno strade separate. L’Isis infatti funziona mettendo insieme tre diversi gruppi umani. Il primo è quello dei nostalgici iracheni di Saddam Hussein, epurati da ogni ruolo nel nuovo Iraq da una legge draconiana — e sbagliata — imposta dagli Stati Uniti, che ha emarginato i musulmani sunniti più o meno praticanti estromettendoli dal nuovo governo iracheno a egemonia sciita. Per costoro, spesso del tutto disinteressati all’ideologia dell’islam politico e più vicini alla declinazione socialista e secolare dell’islam proposta da Saddam, l’Isis è una nave di cui sono saliti a bordo per riavvicinarsi al potere. Finito il califfato dell’Isis in Medio Oriente, scenderanno dalla nave e cercheranno altre imbarcazioni. Per Iraq e Stati Uniti, la sfida è come integrarli in un processo politico che conceda spazi ragionevoli ai non sciiti, onde evitare che siano tentati da altre avventure terroristiche.
La seconda componente è quella ideologica raccolta intorno al califfo al-Baghdadi, un uomo con un dottorato o forse due in studi coranici, dal punto di vista delle credenziali religiose molto più credibile, per esempio, dei due leader storici di al-Qa’ida, l’uomo d’affari con studi accademici in gestione d’impresa Osama bin Laden e il medico Ayman al-Zawahiri.
Quando si discute se l’Isis sia o meno “islamico” occorre distinguere tra le sue tre cerchie. Quella del “cerchio magico” dei leader intorno al califfo, qualunque siano le sue motivazioni ultime, è certamente in grado di spiegarsi e di argomentare sulla base di una visione estrema e millenarista dell’islam. Non smetterà di farlo dopo la sconfitta militare in Siria e in Iraq. Sta già cercando fortuna altrove — in Libia, in Nigeria, nel Sinai, perfino in certe aree dell’Indonesia e delle Filippine — ma ha messo in conto anche la possibilità di non trovare un territorio dove ricostruire uno Stato islamico e di tornare alle sue origini come organizzazione puramente terroristica.
Ci riuscirà? Secondo alcuni, l’Isis finirà semplicemente per essere riassorbito da al-Qa’ida, la casa madre da cui si era staccato nel 2014. Ma potrebbe anche continuare come sigla autonoma. Tutto dipende da come la seconda cerchia — i teorici dell’islam ultra-fondamentalista — riuscirà a controllare la terza, una volta venuta meno la visibilità del califfato territoriale.
La terza cerchia comprende i volontari non iracheni né siriani che si arruolano nell’Isis o lo fiancheggiano rimanendo nei loro Paesi. Ma questa cerchia ha a sua volta due diverse componenti. Una è composta da giovani occidentali nati in famiglie non musulmane che coltivano il sogno romantico di una lotta contro l’imperialismo e il materialismo. Hanno incontrato l’Isis, ma avrebbero potuto incontrare altre milizie. Non sono molto diversi dagli europei che vanno a combattere in Ucraina tra i separatisti filo-russi della sedicente Repubblica del Donetsk, tagliagole criminali non migliori del califfo al-Baghdadi, anche se meno capaci di lui di elaborare una grande narrativa per giustificare i propri misfatti.
A un italiano, questi giovani ricordano piuttosto D’Annunzio o i futuristi, anche se qualche studioso internazionale li paragona alle Brigate rosse. Secondo le ricerche dello studioso canadese Lorne Dawson, che ha intervistato suoi connazionali partiti per combattere con l’Isis in Medio Oriente, costoro non saranno disponibili a lanciarsi con un camion contro passanti innocenti a Montréal, Toronto o New York. Una cosa è combattere con le armi in pugno e cercare la “bella morte” in un contesto esotico, un’altra è uccidere a tradimento i vicini di casa.
C’è però una seconda componente della terza cerchia dell’Isis. Sono gli immigrati arabi di seconda e terza generazione in Occidente, disoccupati e disperati, spesso neppure musulmani praticanti e frequentatori di bordelli e ritrovi per drogati più che di moschee. Il genio di Abu Mohammad al-Adnani (1977-2016), portavoce e numero due dell’Isis prima di essere ucciso da un aereo americano nel 2016, aveva compreso che in questo ambiente si possono reclutare i terroristi perfetti, da non lasciare soli e da affiancare e inquadrare utilizzando qualche fedele ideologizzato delle moschee radicali. I secondi sono certo più affidabili, ma sono spesso schedati e noti alle polizie occidentali. I primi sono invisibili: hanno forse lasciato qualche traccia offendendo su internet i Paesi che li ospitano, di cui quasi sempre sono cittadini con regolare passaporto. Ma nessuno li ha mai visti in una moschea.
Al-Adnani aveva capito che, per far sopravvivere l’Isis, basta una persona che capisce la psicologia di questi disperati nascosta dietro un computer sicuro. Di lì può incitare i potenziali terroristi “invisibili” — e da un certo punto di vista, meno islamici praticanti sono, meglio è — fino a suggerire, quando li giudica sufficientemente eccitati, di prendere un coltello o un camion e uccidere passanti nella propria città. Non sempre si tratta solo dei disperati. Per le operazioni più importanti, li si affianca con qualche militante più consapevole.
Ma per far sopravvivere l’Isis bastano un paio di dottor Stranamore che hanno studiato il metodo Adnani e sono capaci di manipolare disperati via web, e un Paese compiacente — ce ne sono, non necessariamente nel mondo islamico: qualcuno oggi sospetta del Venezuela di Maduro — che garantisca loro ospitalità e una linea Internet non rintracciabile.
Se le cose stanno così, più l’Isis accumula sconfitte sul piano militare, più si moltiplicheranno gli attentati modello Barcellona. Sorvegliare le moschee radicali serve per cercare di fermare i terroristi più consapevoli. Espellere immigrati invece serve a poco: i disperati sono in genere cittadini dei Paesi occidentali.
Non ci sono ricette miracolose, ma più utile che sbraitare contro gli immigrati è cercare di rendere i disperati meno disperati, offrendo loro un progetto credibile di integrazione e mostrando loro il volto di un Occidente che accoglie e non discrimina. È quanto suggerisce, da tempo, Papa Francesco. È qualcosa che non darà risultati domani, non porterà voti alle prossime elezioni e non calmerà gli elettori esasperati di Donald Trump, Marine Le Pen o Salvini. Forse però salverà qualche vita umana.